Film

The Revenant – Redivivo

Esiste una tecnica pittorica che in francese si definisce trompe-l’œil (“inganna l’occhio”) e che consiste sostanzialmente nel regalare l’illusione che il soggetto di un quadro bidimensionale fuoriesca dalla cornice, suggerendo una tridimensionalità ingannevole: The Revenant – Redivivo è il trompe-l’œil portato al cinema.

Ebbene la sensazione che prova lo spettatore di fronte a The revenant di Alejandro Gonzalez è la stessa che probabilmente avevano sperimentato i primi fruitori del trompe-l’œil: un vero che trascende ciò a cui l’occhio (anche cinefilo) è abituato. Impossibile non citare a proposito il merito della fotografia di Emmanuel Lubezki, che si avvia (meritatamente) verso il suo terzo clamoroso Oscar consecutivo, e che rappresentava la “sfida” vera e propria che si era imposto il regista.

La capacità immersiva di questo film è totale e totalizzante: The Revenant è l’anti-Brecht, perché erige una delle quarte pareti più robuste e resistenti che il cinema abbia mai conosciuto, puntellandola grazie a un DiCaprio che ci fa vergognare della sua sofferenza, quasi fossimo spioni che sbirciano dal buco della serratura un dolore – il suo – che Iñarritu traduce in narrazione.

La trama è esile e quasi pretestuosa: un gruppo di venditori di pelli si trovano a caccia nel gelo invernale dell’America del nord quando vengono attaccati da un drappello di indiani, assetati del sangue degli usurpatori. Un gruppo sparuto riesce a mettersi in salvo tra cui Hugh Glass (Leonardo DiCaprio), padre di un ragazzo mezzosangue, imparentato con gli indiani Pawnee. Nel viaggio di ritorno Glass viene attaccato da un orso che lo lascia vivo, ma ferito gravemente. In mezzo al nulla della foresta, incalzati dagli indiani, il gruppo di venditori di pelli abbandona Glass al suo destino per volere di John Fitzgerald (Tom Hardy), che – non contento – uccide il figlio di Glass davanti ai suoi occhi per non dover sopportare le sue proteste.

 

Perché nel mezzo di una tempesta, se guardi i rami di un’albero, giureresti che stia per cadere. Ma se guardi il suo tronco ti accorgerai ti quanto sia stabile.

 

Da lì inizia la lotta per la vita di un uomo morto dentro, un uomo ridotto a dover strisciare, sudare, sanguinare e soffrire per potersi un giorno vendicare di chi gli ha portato via l’unica cosa che aveva cara al mondo; nel silenzio della sua solitudine resta il dolore, che DiCaprio mette in scena superbamente, un dolore catartico, un dolore reale, che si propaga in sala e che fa stringere i denti anche a chi guarda; un dolore figlio di una natura leopardiana indifferente, una natura matrigna che ammazza e squarta senza averne neppure coscienza.

Il film si dipana lento, ma affilato come una lama gelata che affonda sempre più nella carne di chi guarda e si sente strappato a tutto quanto, se non a una speranza esile che si staglia al di là di quella foresta ghiacciata che Glass deve affrontare e sconfiggere.

La regia, in assenza di dialoghi, rappresenta in questo caso più che mai uno dei motori della narrazione e fa di The revenant un film di inquadrature e piani sequenza che non sono virtuosismi, ma espressioni di una grammatica filmica che scandisce al meglio una storia che si guarda molto più facilmente di quanto si possa raccontare a parole.

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Iñarritu conduce i suoi attori in uno scenario che dovrebbe essere western, ma che del western mantiene solo l’ambientazione, un abito spogliato dei suoi sensi e dei suoi valori fondanti. Perché non esiste genere per questo film che mette in scena un realismo crudo: un crudo che non è però sinonimo di sadico, ma di reale.

Al di là di qualche esagerazione cinematografica, che fa un po’ a pugni con la suddetta pretesa di (iper)realismo, il film rappresenta sicuramente un’esperienza visiva da non perdere, impreziosita anche dall’interpretazione dell’ormai onnipresente Domnhal Gleeson e di un Tom Hardy a cui è stato affidato il personaggio meglio scritto: un antagonista che non scade nel banale villain, ma che rimane un uomo sfaccettato e poliedrico di cui non è nemmeno tanto difficile comprendere le ragioni.

Glissando sui tanti (troppi) discorsi su premi e riconoscimenti, assistiamo a uno spettacolo che non può non far immedesimare, che poggia interamente sull’interpretazione di DiCaprio, sulla regia di Iñarritu e sulla fotografia di Lubezki come suoi elementi imprescindibili.

Sottotraccia, ma elemento comune a tutte le patetiche figure umane che scorrono sotto gli occhi dello spettatore, è il discorso sulla malvagità che il regista porta come cifra identitaria di un essere umano fratricida e guerrafondaio; latore di una ferinitas ben più spregevole di quella della natura che romba e tuona nelle sue tempeste di ghiaccio.

Federico Asborno

L'Asborno nasce nel 1991; le sue occupazioni principali sono scrivere, leggere, divorare film, serie, distrarsi e soprattutto parlare di sé in terza persona. La sua vera passione è un'altra però, ed è dare la sua opinione, soprattutto quando non è richiesta. Se stai leggendo accresci il suo ego, sappilo.
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