
C’era una volta The Visit ovvero tutte le paure di una fiaba
Potremmo dire che The Visit inizia più o meno così:
C’era una volta Cappuccetto Rosso che doveva far visita alla nonna.
No? Ricomincio:
C’erano una volta due fratelli, Hansel e Gretel.
Nemmeno così? Ricomincio un’altra volta.
C’era una volta Manoj Nelliyattu Shyamalan che col suo dodicesimo film (il decimo dopo Il sesto senso che lo ha reso celebre a tutti) aveva tenuto la sottoscritta rannicchia sotto al lenzuolo e con gli occhi a palla, inquieta per un’ora e mezza, come le capitava solo quando le raccontavano le fiabe da bambina.
Perché succedeva più o meno così: le ascoltavo, qualcosa mi disturbava, andavo a nanna, ci sognavo sopra (spesso erano incubi, altro che principi azzurri). Poi la mattina dopo razionalizzavo.
Ecco, in un certo senso, questo è lo schema che si ripete in The Visit (2015).
Un po’ di fatti, ovvero la trama
Rebecca (Olivia DeJonge), giovane documentarista di quindici anni che non sopporta guardarsi allo specchio, e Tyler (Ed Oxenbould), tredicenne terrorizzato dai germi, vanno a far visita ai loro nonni. Non li hanno mai conosciuti per colpa di una brutta lite di cui la loro madre non parla mai, e che le ha fatto rompere drasticamente ogni rapporto con loro. Dopo quindici anni, tuttavia, sarà perché (un po’ come succede nella fiaba di Hansel e Gretel) quella c’aveva voglia di sbolognarseli per un po’, decide di metterli su un treno e mandarli a casa loro. Si terrà in contatto con i figli tramite Skype.
In pieno stile fiaba
In campagna fa freddo, la strada è piena di sentieri misteriosi, e capanni vietati, a volte ci si annoia, ci si sveglia presto, e si va a dormire appena fa buio.
“Non uscite mai dalla stanza”, dicono i nonni e già parte il primo divieto di The Visit, in pieno stile fiaba. E in pieno stile fiaba, ad aprire quella porta, i due Hansel e Gretel capiscono in effetti di aver fatto una cazzata: nonna sembra Samara di The Ring che vomita in salotto come Peter Griffin. Ma al mattino successivo i nonni spiegano ogni cosa ai perplessi e imbarazzati nipoti, e tutte le terribili e inquietanti stramberie notturne vengono esorcizzate con la luce del giorno. Non solo dai nonni ma anche dalla loro madre, che su Skype giustifica i loro cambi di umore (o di personalità), con semplici stereotipi sugli anziani: erano hippie, sono sempre stati un po’ strani, beh dai ormai sono vecchi, dovete capire è che hanno una certa età. E tutto ritorna normale, come la timidezza del nonno che si fa cupa quando si rintana nel capanno, o la dolcezza della nonna capace di inasprirsi all’improvviso, gli stati catatonici e le esuberanti richieste un po’ folli (entra nel forno così puoi pulirlo fino in fondo).
Ed è l’età quella che prende di mira Shyamalan, e che mette in evidenza sottolineandone i tabù (il corpo, la nudità, la mente, l’affettività) e capovolgendone di fatto la sostanza: i ragazzini hanno la maturità dei vecchi saggi, i vecchi si prendono le chiamiamole libertà dei bambini (ci sono persino pannolini di mezzo).
Occhi
Il filtro fiabesco è sottolineato dai tabù, dai divieti e dalle paure ancestrali, come quello di non poter vedere qualcosa, amplificato dal canale tutto contemporaneo che è l’occhio meccanico, anzi digitale.
Ma come si fa a fare un film basato sul mistero e sulla paura, ambientato durante il nostro secolo ipertecnologico, tra cellulari, videochiamate, GPS e app anti-suspance di ogni tipo?
In The Visit Shyamalan ne scambia l’utilità, e anzi, rende questa tecnologia il filtro di ogni sguardo e di ogni paura. Nella trama fa succedere quello che succede un po’ a tutti quando si usano questi aggeggi in cucina (il regno delle spugne, dell’acqua e del sapone): Ops, devo aver rotto qualcosa, e già parte la webcam del computer, e addio video per la mamma (che da quel momento dovrà limitarsi ad ascoltare i suoi figli e non potrà vedere nulla). Per lo spettatore, invece, Shyamalan adotta un altro stratagemma. Meglio ancora dello sguardo attraverso una serratura c’è quello attraverso la videocamera. Lo abbiamo imparato dai tempi di The Blair Witch Project fino ai più recenti Paranormal Activity che hanno consacrato il mistero del mostrare alla registrazione e alla visione postuma, che per certi versi amplifica persino la paura del vedere una cosa nell’esatto momento in cui capita. Rebecca, infatti, sta girando un documentario amatoriale per conoscere i motivi della rottura tra la madre e i nonni, e tra interviste, riprese di giochi e domande inopportune, registra una candid camera notturna per scoprire i dettagli delle perturbanti nottate di sua nonna.
Horror?
In tanti insistono che dal punto di vista del genere horror il film sia una delusione. E questo è vero se si cercano certi tipi di film dell’orrore. Ma chi ama e apprezza Shyamalan sa che proprio quando gioca su questa indeterminatezza (e non ha grossi budget) non delude mai. Perché è dietro il suo non detto, oltre il non mostrato, che lui svela paure più profonde, e molto più interessanti ambiguità umane. Ci sono infatti tantissime sfumature e tantissime atmosfere in The Visit. C’è la malattia, la vecchiaia, la memoria, la lontananza, la separazione, l’indipendenza, l’autonomia, il proibito. C’è la perplessità, l’imbarazzo, la tenerezza e l’ironia. Si passa da una suggestione all’altra anche nel giro di istante, in una dimensione completamente ordinaria, famigliare, ed è questo che (a detta di Freud) turba ancora di più. Si chiama perturbante. Potremmo persino definirla una commedia degli equivoci, se non fosse per quei momenti in cui l’ansia ti fa divorare le unghie.
Anche le paure o le ossessioni dei protagonisti generano una sorta di grosso equivoco di fondo, esistenziale. Perché, forse, sapersi guardare allo specchio, come smetterla di aver paura di ciò che è sporco e cattivo, aprirebbe gli occhi su come stanno le cose al mondo. Tutti si possono sporcare, nessuno è pulito davvero, e di tutte le colpe che ci si tiene addosso, forse la peggiore è proprio il silenzio o il tabù, vero colpevole nel trasformare equivoci ed errori in mostri ancora più grandi e feroci.