Film

The Wolf of Wall Street: sugli eccessi (d’arte)

Scorsese e il suo Wolf DiCaprio: problemi iniziali

La tentazione di cominciare dalle critiche – non quelle da fare, ma quelle da smontare! – è così forte da non poter essere ignorata, se si parla di The Wolf of Wall Street.
Si tratta di un film, infatti, che è piombato sull’anno cinematografico 2013 come un fulmine a ciel sereno, e che da subito si è portato sulle spalle tutta una serie di polemiche e discussioni. Prima di tutto: Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese ancora insieme, per l’ennesima volta dopo i vari, più o meno validi (ma sempre ben oltre la sufficienza, diciamocelo!) Gangs of New York, The Aviator, The Departed e Shutter Island. Due giganti del cinema hollywoodiano ancora insieme, con il chiarissimo obiettivo di sbancare agli Oscar. Nemmeno stavolta ci sono riusciti, soprattutto DiCaprio, ma questa è un’altra storia.

The Wolf of Wall Street è nato in un contesto talmente ricco di polemiche da crearne alcune ancora prima di uscire nelle sale: il film ha avuto una genesi lunga e travagliata, e il grande Martin Scorsese se l’è prodotto quasi interamente da solo, al massimo affidandosi a case di produzione (relativamente, è chiaro) piccole, indipendenti. Perché mai?
Voleva totale libertà sul copione e sul girato. E qui c’è già puzza di bruciato: come mai vengono messe così tanto le mani avanti?
Ebbene, Scorsese aveva ragione: il suo Wolf, che oltre a Leonardo DiCaprio si chiama Jordan Belfort ed è un personaggio realmente esistito, ha sconvolto e scandalizzato tutti, nel bene e nel male, al punto da scatenare una guerra legale tra il regista e i grandi circuiti di distribuzione degli States. Si tentò (e in qualche momento e luogo si riuscì, drammaticamente) di presentare la pellicola in una versione edulcorata, all’acqua di rose, con tagli alla sceneggiatura e al girato. Troppe volgarità, troppo sesso, troppa droga. Troppo tutto, vien da dire. Ed eccoci già al punto.

THE WOLF OF WALL STREET

Se c’è una parola capace di riassumere il senso di un film come The Wolf of Wall Street (e dell’autobiografia da cui è tratto, edita in Italia da Rizzoli), quella parola è proprio troppo. Ma d’altronde è la parola più giusta per descrivere la storia di Jordan Belfort, broker spietato e senza l’ombra di uno scrupolo: ed è alla sua vita che la regia di Scorsese in qualche modo si piega, “limitandosi” semplicemente a trasporre le parole di Jordan in immagini, sequenze e battute.
La figura di Belfort, e della sua reincarnazione in Wolf, non è piaciuta ai cultori del politically correct perché non era fatta per piacere ai cultori del politically correct.
Con che intento, si sono in chiesti in molti, Scorsese ci presenta questa vita dissoluta e folle, totalmente non esemplare? Semplicissimo: l’intento è la verità. Perché il regista non ha messo il personaggio di Jordan-Wolf sin da subito nella cattiva luce che merita? Perché non ne ha fatto un Satana, una sorta di Lucifero dantesco? Ancora semplicissimo: perchè non è la verità.
The Wolf of Wall Street può apparire un’ode, un inno all’eccesso in tutte le sue forme, per il banale motivo che la vita di Jordan Belfort è stata un inno all’eccesso in tutte le sue forme. Se vogliamo farci un po’ di filosofia sopra, possiamo scomodare (per una manciata di secondi) Schopenhauer, secondo cui la vita si riassume in un’altalena disperata tra il senso di privazione dato dal desiderio di qualcosa, e la noia che nasce appena si ottiene ciò che si desiderava. Ed è così di continuo, in maniera ciclica: la vita del nostro Wolf ne è un perfetto esempio.
Jordan/DiCaprio parte povero in canna e con un gigantesco sogno nel cassetto: detto in maniera gretta, fare i soldi. D’improvviso, grazie alla sua titanica forza di volontà che spesso non è altro che cocciutaggine (un eccesso di volontà, per restare in tema di eccessi, potrebbe proprio essere il motore iniziale dello sbarbatello Wolf), gli si aprono le porte di Wall Street. Ed è (quasi) subito Valhalla.

The Wolf: il fascino e gli abissi del troppo

Left to right: Margot Robbie is Naomi Lapaglia and Leonardo DiCaprio is Jordan Belfort in THE WOLF OF WALL STREET, from Paramount Pictures and Red Granite Pictures. TWOWS-03426RDa quel momento, la macchina da presa di Scorsese documenta, in modo volutamente impietoso ed esagerato, la nascita e l’ascesa della Stratton Oakmont, che si fa rapidamente strada nell’ambiente delle aziende di broker di Wall Street, attirandosi dal mondo finanziario complimenti, ma anche diffidenza (nonchè le attenzioni dell’FBI, naturalmente). Quest’ultima nasce proprio dalla dissolutezza che caratterizza l’ambiente della società di Jordan: un gruppo di soci fondatori che vengono, chi più chi meno, dalla strada, dallo spaccio, e che hanno in comune con Jordan quell’innato, indissolubile desiderio di arricchirsi che li porterà a fare di tutto.


Di tutto
letteralmente, ed è su questo punto che le critiche sono piovute in testa a Scorsese, a DiCaprio e al film in generale: The Wolf Jordan e i suoi soci/amici si dilettano, per distrarsi dal lavoro incessante o per concentrarvisi meglio (un motivo buono per eccedere il lupo lo trova sempre), nell’utilizzo smodato di qualsiasi tipo di droga capiti loro sotto mano.
E qui droga va inteso nel senso più lato del termine: quanti di noi non hanno mai pensato che i soldi attraggono tanto da poter essere considerati una droga? Quanti non hanno mai pensato la stessa, identica cosa a proposito del sesso? Nessuno di noi è un santo: lo sa Scorsese, lo sa DiCaprio, e lo sa pure il nostro Wolf Jordan, che da questo punto di vista è decisamente un diavolo, sempre pronto a lasciarsi tentare e a tentare a sua volta.
La diablerie di Jordan consiste sostanzialmente nell’ottenere una cosa e nel volerne, di quella cosa che ha appena ottenuto, ancora un po’. E poi ancora un po’. E poi ancora un po’. Sempre di più, di più, di più.

 

Non si accontenta di una moglie fedele, che è disposta a chiudere entrambi gli occhi di fronte alla sua immoralità per il bene deThe.Wolf.of.Wall.Street.2013.1080p.BluRay.x264.YIFY.mp4_snapshot_00.26.45_[2014.11.02_11.19.27]l loro matrimonio: lui vuole una Regina, una Duchessa, e si prende Margot Robbie, che in tutto il suo splendore, tutta la sua lingerie e tutta la sua nudità affamata di sesso (e denaro) non può che lasciare a bocca aperta noi, insieme a Jordan, ogni volta che appare.
Non si accontenta di quel po’ di cocaina e di quei due o tre cocktail che gli fa provare il broker anziano (quasi un Guru) Mark Hanna (un Matthew McConaughey da urlo, che in dieci minuti di cameo riesce anche ad improvvisare una scena, quella del “canto tribale”): il ricco/povero Wolf svilupperà ben presto, infatti, una dipendenza da una serie infinita di sostanze, di cui avrà bisogno per lavorare, e poi per dormire, e poi per lavorare di nuovo.

E non si accontenta neppure, il Lupo Jordan, dei soldi che guadagna: è costantemente impegnato, infatti, ed escogitare metodi per farne ancora di più, insieme al “suo” vicepresidente Donnie Azoff, intrepretato da un Jonah Hill talmente incredibile che, semplicemente, nessuno al mondo avrebbe mai potuto aspettarselo (in vari punti del film è a lui a bucare lo schermo, non Di Caprio).

The Wolf: dalle parole allo schermo

9-different-ways-to-cold-email-someone-when-youre-trying-to-sell-and-make-tons-of-moneyMartin Scorsese si limita a riportare tutto questo: l’esagerazione, in certi punti persino una sorta di “espressionismo” grottesco sono intrinseci alla vicenda, e il regista li può solo far vivere con i suoi mezzi.
E’ così che nascono quei campi lunghissimi, quei piani sequenza immersivi che trasformano l’ufficio centrale della Stratton Oakmont in una immensa arena da concerto rock (dove Jordan è perfettamente a suo agio, impugnando il microfono proprio come una rockstar e prendendosi gli applausi e i cori); è così che nascono i rallenty (o le sequenze acceleratissime, ugualmente “spigolose”) molto insistiti
su certe scene di sesso e di “sbronza”
, per accentuare e sbattere in faccia la dissolutezza, la mancanza di freni inibitori; è così che emergono, in certi punti del film, quelle scene volte a farci capire che il regista una posizione ce l’ha eccome.
Scorsese è troppo imparziale? Ma neanche per sogno: basta pensare ad una delle prime scene di gruppo nella sede della Stratton (quelle che sembrano concerti dei Rolling Stones), quando The Wolf è impegnato ad arringare la folla dei suoi dipendenti; per farlo ancora meglio, offre loro uno spettacolo da arena dei gladiatori, esibendo una loro collega che ha accettato di farsi rasare la testa per 10.000 verdoni.
Ecco, questa è una delle poche sequenze del film in cui è impossibile anche ridere, cosa che si fa per quasi tutto il resto del tempo. Ma perchè ridiamo?
Si tratta di un osceno meccanismo di difesa: per mostrare a noi stessi, e a chi è eventualmente con noi mentre di-caprioguardiamo il film, che non potremmo mai essere come Wolf/Jordan, erigiamo tra noi e lui un muro basato spesso sulla risata, a volte sul distogliere lo sguardo, sempre fondamentalmente sul rimanere basiti, fintamente indignati. Attenzione, perchè la nostra in realtà potrebbe essere soltanto invidia: quante ne facciamo passare a Jordan, quante gliene abbuoniamo prima di decidere, definitivamente e a malincuore, che non facciamo più il tifo per lui?

La natura umana obbedisce a leggi semplici, che la rendono simile nel corso dei secoli e più o meno in ogni luogo.

E’ questa la grande consapevolezza di Scorsese, nonchè di Jordan/Wolf, che ci portano insieme a visitare gli angoli più bui dell’Uomo, inteso come specie animale che si differenzia dalle altre solo perchè ha più potere e più cervello da sottomettere ai propri scopi ferini.
In fondo potremmo essere tutti così. Dà fastidio? Certo. Il film dà fastidio? Certo: sono tre ore (che volano in un lampo) di pura follia.

Ma che cosa avrebbe dovuto fare allora Scorsese? Raccontarci una bugia?

Emanuele Pon

Autentico nativo genovese, classe '92. Nella vita tendenzialmente mi piace imprecare e scrivere, in quest'ordine. Quando non impreco, scrivo, e scrivo di letteratura e cinema, perchè vivo nella (folle?) convinzione che di immagini e parole sia fatta la parte più bella del mondo.
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