
“THOR – Love and Thunder”: il cervello ha lasciato l’edificio [NO SPOILER]
Togliamoci subito il presupposto cardine: se sei tra quelli che ha odiato Thor: Ragnarok, è molto difficile che ti piaccia Thor: Love and Thunder. Siamo decisamente in zona “more of the same”. Squadra che vince non si cambia: se infatti in Italia molto scetticismo accolse il film del 2017, il riscontro di critica e pubblico USA fu tale da farlo decretare un successo.
Quindi, per la prima volta nella storia del Thor cinematografico, non abbiamo un cambio di regista al timone. A differenza di Kenneth Branagh e Alan Taylor, Taika Waititi viene riconfermato: motivo per il quale Love and Thunder può considerarsi appieno sequel diretto di Ragnarok.
Inseriamo invece l’elemento che spariglia le carte, e può rendere questa recensione interessante: faccio infatti parte di quei “pochi” che Thor: Ragnarok lo apprezzò molto, e che tuttora lo mette in fascia abbastanza alta di un’eventuale classifica MCU generale.
Siete ancora qui? Ebbene sì: a mio avviso Thor: Ragnarok era un ottimo film su molti fronti, sia tecnici sia di scrittura, e aveva il merito di mostrare appieno la personalità del regista dietro la macchina da presa, cosa non scontata in ambito Disney. Molti autori – lo stesso Branagh, Guy Ritchie – diventano del tutto impersonali quando sono prodotti dalla Casa del Topo.

Per una qualche convergenza astrale, invece, lo stile di Waititi sembra piacere molto in casa Disney e questo consente di vederlo abbastanza a briglia sciolta, quando dirige per loro, divenendo subito riconoscibile: forse è il regista in cui il divario tra com’è quando è prodotto dalle major e com’è nelle piccole produzioni indipendenti, è meno vistoso. Evidentemente il suo mood giocoso, gioioso, folle e bambinescamente irriverente è molto compatibile con il “tono” della casa – tanto che, sempre che vada in porto, dopo aver diretto alcuni episodi di The Mandalorian a lui saranno affidati i nuovi film di Star Wars.
Quanto detto è valido anche per Thor: Love and Thunder, di fatto una grande giostra cinematografica. Zeppa di colori, suoni, gioia, rumori e battute. Tante, battute. Troppe, a volte.
È un prendere o lasciare, senza mezze misure: o lo ami, o lo odi. Non a caso, come accaduto per Ragnarok, le critiche negative che si leggono al film sono sempre e quasi esclusivamente stilistiche, non strutturali. Se infatti Thor e Thor: the Dark World a causa del travaglio produttivo mostravano palesi problemi di sceneggiatura, messa in scena e scrittura (e che paradossalmente vengono perdonati più spesso!), quando si parla di Ragnarok è molto più frequente entrare nel dominio del soggettivo. È lo stile caciaro del regista in sé che “non piace”, o che “non piace” applicato al personaggio di Thor.
Con buona pace della battuta che ci si trascina da anni, non si tratta però di comicità da cinepanettone: semplicemente, è un tipo di comicità che ha la grande colpa di non essere cinica e grottesca, ovvero l’unico genere di comicità cui da un po’ di anni viene riconosciuta dignità artistica. Non è insomma James Gunn, non siamo certo in zona The Boys. La comicità di Waititi è più quella di Mel Brooks o dei Simpson, che spazia tra i generi, che tocca l’alto e tocca il basso, l’infantile e il trasgressivo, con lo stesso grado di contaminazione. Fa l’opposto di ciò a cui i blockbuster ci hanno assuefatti: nei cinecomic siamo abituati infatti ad avere molta superficialità di scrittura sotto una vetrina di drammaticità. In Waititi invece la superficialità ti viene subito sbattuta in faccia, ma sotto quella superficie trasparente lui ha la totale libertà di sorprendere e toccare qualunque registro, drammatico, spirituale e sentimentale che sia.

In questo film, prende uno dei personaggi peggio scritti di tutto l’MCU – la Jane Foster di Natalie Portman – e gli regala finalmente una dignità, rispettando per altro il canone fumettistico. Prende la sua relazione con Thor e gli dà una sostanza, una verosimiglianza che né Branagh né Taylor avevano trovato, preferendogli all’epoca un cliché impegno zero. Un aspetto che è carente in molte produzioni MCU, ovvero la scrittura dei personaggi e la scrittura delle relazioni tra i personaggi, trova molto più respiro in questo film – che del resto si chiama pur sempre LOVE and Thunder.
È pur vero che la prima mezz’ora di film è quasi insopportabile: il Thor di Chris Hemsworth è di una scemenza inenarrabile e c’è una frenesia in scena che urta il sistema nervoso. Poi però, da un certo punto in poi, si va migliorando – anche se mi rimane il dubbio che sia il mio cervello che a un certo punto ha capitolato e ha abbandonato la sala, lasciando a “goderne” la me stessa undicenne. Ma credo sia proprio questo il nodo: se non indispettisce, è un tipo di comicità che può avere il dono di disarmare. Tipo quando giochi a chi ride prima e ti sforzi di restare serio con ogni mezzo ma l’altro fa qualcosa di talmente stupido che scoppi a ridere in maniera liberatoria, presente? Vorresti rimanere granitico nel tuo disgusto ma poi accade qualcosa di talmente folle, o grazioso, o kitsch, da sintonizzarti su quella frequenza. Se quell’interruttore scatta il cervello vola via in quel mood, come un palloncino. Se invece quella frequenza lì proprio non la ricevi, facile che il film sia per te piacevole come il soave suono di unghie sulla lavagna.
Il villain di Christian Bale è ottimo anche se, come tutti i villain MCU, non va oltre una data soglia di complessità – in questo caso avrebbe avuto un grosso potenziale per farlo, ma si sa che nei film Marvel non bisogna mai rischiare di oscurare l’eroe. Il lato visivo è eccelso, è poco meno che un caleidoscopio, segue tutta quella linea camp che i Marvel Studios hanno abbracciato dall’inizio della Fase 4 e la trasforma in un tripudio di colori – e non colori.

Complessivamente, è per me un film da sette: divertentissimo, con spunti ottimi, tirato su proprio dalla personalità stilistica alla regia e da un finale per nulla scontato (persino un pelo amaro, a suo modo), uno di quei film junk food che si riguardano volentieri, ma che ahimè non spicca mai quel salto per diventare epico e iconico. Da quel punto di vista, Thor: Ragnarok gli è superiore.
Vederlo? Se vi è piaciuto il suo predecessore, ovvio che sì. Se siete dei completisti, naturalmente vi tocca e basta. Se al cinema cercate evasione solo evasione nient’altro che evasione, è il film per voi. Se avete tra i 3 e i 12 anni, correte. Se siete fangirl, probabilmente siete in lutto per un’assenza importante, ma secondo me vi darà gioia lo stesso. Se siete fan delle attrazioni di Disneyland e potete sopportare di vederne un’equivalente al cinema, andate tranquilli. Se siete capre, beeeeeee!
Tutti gli altri possono aspettare il passaggio su Disney + .