
Todo Modo: un Gattopardo si aggira nell’Italia degli Anni di Piombo
Negli Anni Duemila l’Italia è in piena crisi economica e sociale e si girano i film di Checco Zalone alla ricerca del posto fisso, negli Anni Settanta l’Italia era in piena crisi politica e identitaria e si girava Todo modo. Eppoi dicono che “si stava meglio quando si stava peggio” è solo retorica.
Todo modo è il canto del cigno dell’accoppiata Elio Petri – Gian Maria Volonté e prende le mosse dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia: siamo nel 1976, e mentre nel paese una sorta di peste bubbonica continua a mietere vittime, il gotha della politica e dell’economia patria, che dato il periodo fa rima con Democrazia Cristiana, si raccoglie in un albergo sotterraneo per un annuale ritiro spirituale ispirato, per l’appunto, agli esercizi del gesuita Ignazio di Loyola.
Solo che in questo caso gli esercizi consistono in una maratona penitenziale di tre giorni per purificarsi da corruzione, mazzette e magheggi vari tipici del resto dell’anno. Peraltro, la purificazione è solo apparente: gli esercizi infatti altro non sono che una copertura per orchestrare spostamenti e nomine all’interno del Partito al fine di preservare il potere nel paese.
Praticamente un Gattopardo più moderno, dove tutto deve cambiare affinché tutto resti uguale, ma neppure così tanto. Sì, perché allo Zafer si inanellano una serie di inaspettati delitti, che eliminano a poco a poco tutti i maggiori esponenti della crême italica. Non si salverà neppure Il Presidente, un Gian Maria Volonté più che perfetto: aperta caricatura di Aldo Moro, al punto di aver deciso di comune accordo con il regista di cestinare alcune scene troppo esplicitamente ispirate al capo del Governo di quegli anni, con quella voce melliflua e quel modo di strofinarsi le mani incarna come meglio non si potrebbe la brama di potere e, quindi, l’accettazione di qualsiasi compromesso pur di preservarlo.
Lo stesso si può dire di Marcello Mastroianni, prete diabolico e calcolatore e intimo confessore – si badi, non amico, ché nessuno in certi frangenti può dirsi amico di nessuno – del Presidente, ritratto esemplare del lato meno ascetico della religione e disposto a esercitare todo modo para buscar la voluntad divina, che in questo caso non potrebbe essere più terrena. O della moglie, una Mariangela Melato accogliente e al tempo stesso malsana. Dulcis in fundo, compare pure Ciccio Ingrassia: solo che in questo caso il suo viso scavato anziché suscitare ilarità si trasforma in una maschera di inquietudine ed angoscia.
Nonostante le cautele di Petri e della produzione, all’epoca il film resta nelle sale solo un mese prima di essere sequestrato. Né viene distribuito negli Stati Uniti, dove pure qualche anno prima il duo Petri – Volonté si era accaparrato un Oscar con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. D’altra parte, siamo nel pieno del compromesso storico fra DC e PCI, a cui peraltro il film fa esplicito riferimento, ed il Partito Comunista, solitamente propenso ad apprezzare le opere di Petri, non se la sente di dare il suo appoggio a una simile pellicola. A nulla dunque valgono l’utilizzo spinto della farsa – una farsa che lo stesso Petri definisce “nerissima” – e del grottesco per aggirare la censura.
Peccato, perché le scenografie e le inquadrature espressioniste e claustrofobiche da sole valgono il film – non per niente portano la firma di Dante Ferretti. Se a ciò si aggiunge un cast di professionisti d’antan e una trama che unisce agli intrighi à la House of Cards un ritratto sociale spietato, si può persino parlare di capolavoro.