Sono un fan affezionato del carissimo Nicola Refn sin da quando ho preso visione del suo primo lavoro – Pusher. Sono stato come folgorato dallo stile sporco e dall’estetizzazione della violenza messi in atto dal regista danese. Così ho deciso di seguirne l’evoluzione stilistica lungo tutta la sua filmografia, imbattendomi in (quasi) solo capolavori. Pensavo che il compimento dell’idea estetica di Refn si fosse raggiunto con The Neon Demon – ultimo film del regista (per ora) -, tuttavia mi ero perso per strada un gioiello luminoso denominato Too old to die young.
Questa foto potrebbe tranquillamente essere l’immagine conclusiva di una pubblicità di mezcal. E difatti il Messico c’entra eccome, ma ci arriviamo a tempo debito.
Too old to die young è una serie tv ideata da Refn assieme a Ed Brubaker, grande fumettista rivoluzionario – per intenderci è quello che ha fatto morire Captain America, per dire -, e diretta interamente dal buon Nicola. Io quando mi sono reso conto di questa cosa ho cominciato a sbavare peggio di un pitbull in calore e mi sono dovuto placare iniziando la visione della serie. Mi ero dimenticato di chi era Refn…

Se dovessi individuare tre costanti stilistiche del regista danese vi direi: colore, panoramiche e rarefazione temporale. Too old to die young sembra interamente concepita seguendo queste direttive. Che certo, suona molto figo, che bomba la fotografia, inquadrature che sembrano dei quadri, tutto bello. Però.
Un conto è guardare un film di un’ora e mezza/due ore di lente panoramiche e silenzi interminabili; un altro conto è guardare dieci episodi da un’ora e mezza di lente panoramiche e silenzi interminabili. E qui c’è poco da fare i cinefili col mignolino alzato, di quelli che godono quando un regista li fa soffrire e li porta all’esasperazione, gli stessi che guardano Luz silenciosa e dicono che è stato più facile che uscire durante la quarantena: voi mentite.
Too old to die young dopo “soli” due episodi sfida prepotentemente la vostra pazienza e i vostri nervi. Più volte, durante la visione, sono stato tentato di abbandonarla. E non è che state parlando con uno che dice che Odissea nello spazio è lento: mi capita di farmi sessioni anche di 7 ore o peggio di film. Che volete, in tempi di quarantena mi siedo e appoggio la schiena. Non giudicatemi, dai.

Col senno di poi trovare il coraggio nel continuare la visione è stata una manna dal cielo. Però preparatevi, io vi ho avvertiti: ci saranno momenti in cui vi verrà voglia di suicidio.
E qui sono finite le caratteristiche negative di Too old to die young. Che poi questa lentezza personalmente non la definirei nemmeno un disvalore, in quanto rientra coerentemente nell’esplorazione dello spazio e nel lavoro sulle immagini che Refn compie almeno da Pusher II. Nel caso del danese possiamo davvero affermare che egli è un regista che compone quadri in movimento.
Tra l’altro questa estrema lentezza e rarefazione avvicina in maniera interessante la serie di Refn a Twin Peaks 3, come d’altronde un elemento comune è costituito dalla componente surreale. Ma non soffermiamoci sulle analogie tra le due serie che se no ‘sto articolo lo leggono in 3.
Forse, però, sarebbe anche arrivato il momento di dire di cosa parla Too old to die young, voi che dite?

Too old to die young è uno strano impasto postmoderno di thriller, noir, western, satira, black comedy, poliziesco, surrealismo e Giancarlo. Abbiamo un tizio (Miles Teller, straordinario a mio parere) che fa lo sbirro e ha ucciso la persona sbagliata. Da qui si dipanerà una, a dire il vero, scarna trama fatta di odio, ripercussioni e violenza ambientata in un mondo in cui vige la legge del più forte e in cui la vera legge è ridotta a parodizzazione di se stessa.
Refn dipinge un’America vuota, corrotta, priva di valori morali, in cui i poliziotti sono dei fascisti perdigiorno e in cui non c’è spazio per i buoni propositi o per le personalità positive: è un universo di anti-eroi all’interno del quale non è possibile trovare una via di fuga. Il protagonista è un personaggio succube di questa realtà, alla quale si adegua passivamente, solo apparentemente cercando una via alternativa. I personaggi o sono disillusi e senza speranze o dominano questo mondo con la violenza.
È una vera e propria dimensione infernale.
A ciò dovete aggiungere il Messico, con tutta la sua subcultura, fatta di superstizioni e spiriti. Infatti la trama, se privata di tutti i suoi orpelli estetici, si riduce a un classico scontro di una parte americana contro un cartello messicano. Intendiamoci, però: non stiamo parlando di Narcos, qui non ci sono scontri tra la polizia e i narcotrafficanti, perché la legge è inesistente ed il mondo è abbandonato ad una viziosa entropia. Qui si tratta di dominare questo mondo e l’unico modo per farlo è essere il più violento di tutti.
Bisognerebbe poi soffermarsi sulla simbologia interna all’opera. Ve ne do solo un piccolo assaggio. No, non era una battuta a sfondo sessuale. Concedetemi qualche piccolo spoilerino.
Il capoccia nascente del cartello si chiama Jesus e lungo tutta l’opera il suo personaggio esprime la volontà di portare una sorta di “buona novella” nel mondo. Certo, non lo fa coi baci, le moltiplicazioni dei pesci e il porgi l’altra guancia: diciamo che lui moltiplica la cocaina e i soldi e se gli porgi l’altra guancia gentilmente ci appoggia il tacco del suo stivale. Resta comunque un uomo di classe, non come quel poveraccio di Gesù.
La mamma del buonuomo, invece, si chiama Magdalena. Mi sembra superfluo soffermarsi sulle evidenti implicazioni edipiche ed incestuose derivanti da questo accostamento, quindi le lascio a voi. Contate, però, che questo personaggio non è effettivamente presente nella trama, ma è piuttosto ridotto ad una presenza fantasmatica che funge da motore invisibile di tutta l’azione. Un po’ à la Rebecca di Hitchcock, per intenderci. Tra l’altro avete visto che ne hanno fatto un remake su Netflix? Paura? Anch’io.
La controparte femminile di Jesus, infine, si chiama Yaritza. Il nome è composto da due parti: Yana, che significa encantadora, traducibile in italiano con bella, affascinante, ammaliante; e Ritza, che significa protectora, traducibile con protettiva, protettrice. Senza fare troppi spoiler, vedrete che questo nome è decisamente programmatico.
È poi interessante notare il femminismo soggiacente all’opera. Refn dipinge un mondo evidentemente dominato dagli uomini, e di certo la legge del più forte è un meccanismo che favorisce una presa del potere maschile. Inoltre la maggior parte delle dinamiche che definiscono i rapporti tra i personaggi sono fortemente improntate secondo una struttura patriarcale saldamente discriminatoria.
In quest’orizzonte, però, si stagliano due figure, seguite a distanza da una terza.
La prima è Diana, una sorta di sensitiva che nello svolgersi della serie diventa una specie di protettrice delle anime innocenti. O qualcosa del genere, Refn è un po’ pazzo. Tornando alla simbologia, tra l’altro, Diana è il nome della divinità romana protettrice delle selve, degli animali e delle donne. Il suo è un personaggio che sembra restare incontaminato dalle dinamiche del patriarcato.
La seconda è proprio Yaritza, che si configura come controparte in negativo di Diana. Attenti però: questo non significa che le due figure sono da considerarsi in opposizione. Entrambe le donne lottano e operano al fine di scalzare il patriarcato, sono come due facce della stessa medaglia, una bianca e l’altra nera, come se fossero due sacerdotesse. Mentre, però, Diana resta incontaminata, e dunque in un certo senso pura, Yaritza si immischia nelle dinamiche maschili, ne è pienamente parte, ma per sabotarle dall’interno, in modo silenzioso.
Yaritza, però, è un personaggio che evoca la figura di Magdalena. Quest’ultima è una donna che è stata a capo del cartello, una sorta di regina del narcotraffico, ed è venerata come fosse una dea. Significativo che a capo di un cartello ci sia una donna e non un uomo.
Giusto per concludere la nostra rassegna di simboli, fate caso al fatto che i titoli degli episodi si rifanno ai nomi delle carte dei tarocchi. In particolare, una di queste figure, l’Appeso, è intarsiato sul calcio della pistola di Yaritza. Che poi l’Appeso è un elemento centrale anche in Parnassus di Terry Gilliam. Scusate, vedo analogie ovunque. D’altronde Refn è un forte cinefilo.
In conclusione, mi vorrei soffermare su un ultimo elemento.
Refn ha concepito Too old to die young come un lunghissimo film di circa 13 ore, di nuovo, come Lynch per Twin Peaks 3. Non sto qua a dirvi quanto il regista di Missoula abbia cambiato la storia e lo statuto delle serie tv per sempre, con Twin Peaks prima e con Twin Peaks 3 dopo. In particolare la terza stagione della serie più famosa di sempre sembra, tra le altre cose, aver spostato in avanti l’asticella delle serie tv conferendo al tutto un’estetica e una qualità visiva decisamente più cinematografica.
Refn, a mio avviso, è andato oltre. Fermi, non urlate. Lynch è il mio regista preferito e non gli farei mai un torto del genere.
Quello che voglio dire è che guardare Too old to die young è effettivamente come guardare un film di Refn. E sicuramente è una serie che si configura come un anti-serie. Inoltre il regista ha più volte dichiarato che la serie si può guardare sì seguendo la progressione lineare degli episodi, ma anche guardando gli episodi a caso. Le cose, messe insieme, identificano, a conti fatti, ogni episodio come se fosse effettivamente un lungometraggio. Aggiungete poi che Refn sostiene che il futuro sia lo streaming e che il cinema sia inevitabilmente destinato ad incorrere in tale mutazione.
Quindi, per quanto mi riguarda, ma non sono nemmeno l’unico a sostenerlo, Too old to die young è la prima serie tv che porta il cinema sul piccolo schermo. Una spia di questo fatto è data anche da una splendida sequenza contenuta nel penultimo episodio, dettata da una regia nettamente cinematografica, coronata da una poeticissima citazione a Zabriskie Point.
Datemi pure dell’eretico. Ciao.