Quest’anno ho avuto modo di entrare come volontario nello staff del Torino Film Festival. Assegnato alla lounge e alla sala stampa della RAI, mi sono occupato principalmente di accogliere gli ospiti, sorvegliare il posto e pulire ogni tanto. Un compito un po’ noioso, ad essere sincero (anche perché di pomeriggio era un mortorio), ma con due vantaggi: primo, l’accesso illimitato al buffet; secondo, l’accredito per assistere alle proiezioni.
Così, armato di quest’ultimo, mi sono sparato quante più pellicole possibili tra quelle proposte dal TFF, giunto ormai alla sua trentaseiesima edizione. Tra nuove uscite, anteprime e vecchi classici, posso dire di aver fatto una bella scorpacciata. Certo, non sono riuscito a vedermi tutto. Dei film in concorso, in particolare, ne ho recuperato appena tre. Ciononostante la lista rimane abbastanza lunga.
Vorrei stare a raccontarvi tutto nel dettaglio, ma ci vorrebbe troppo e, onestamente, sarebbe molto tedioso. Pertanto mi limiterò a elencare le opere visionate, fornendo per ciascuna un breve commento.
Siete pronti? Si comincia con…
Mandy (di Panos Cosmatos, USA, 2018)
Un revenge movie psichedelico, folle, allucinato e violentissimo. Un omaggio agli horror anni ’70-’80 e all’heavy metal con un Nicolas Cage completamente fuori di testa. Ovviamente l’ho adorato!
La casa delle bambole – Ghostland (di Pascal Laugier, Francia/Canada, 2018)
Molte idee interessanti, tra cui un geniale plot twist a metà pellicola. Ma l’ultimo horror di Pascal Laugier (Martyrs) cade nei soliti cliché ed è fastidiosamente pieno di jumpscare. Appena sufficiente.
L’occhio che uccide (di Michael Powell, UK, 1960)
Thriller cult del ‘60 con Carl Bohem nel ruolo di un killer che filma con la macchina da presa i suoi stessi omicidi. Insieme a La finestra sul cortile, forse il miglior saggio sulla natura voyeuristica (e sadica) del cinema.
Piercing (di Nicolas Pesce, USA, 2018)
Un uomo vuole togliersi lo sfizio di assassinare qualcuno e perciò chiama una prostituta. Ma nel corso della serata i ruoli di vittima e carnefice si scambiano continuamente. Divertente e bizzarra commedia nera dalla messa in scena grottesca e surreale.
Happy New Year, Colin Burstead (di Ben Wheatley, UK, 2018)
Colin invita parenti e amici in una casa di campagna per festeggiare Capodanno. Ma tutti odiano un po’ tutti. Tra dramma e commedia, una bella storia di famiglie disfunzionali, sorretta da un buon cast e da un pungente humor all’inglese.
Den Skyldige – The Guilty (di Gustave Möller, Danimarca, 2018)
La sorpresa di questa rassegna. Un thriller minimale, ambientato in un’unica location (il centralino del pronto intervento), che grazie a una sapiente gestione della suspence e del comparto audio e alla straordinaria prova d’attore del protagonista (Jakob Cedergren), riesce ad avvincere e appassionare lo spettatore. E questo nonostante la maggior parte delle vicende avvenga fuori schermo! Aver saputo che ha fatto incetta di premi mi ha riempito di gioia.
Relaxer (di Joel Potrykus, USA, 2018)
Commedia stramba e delirante su un tizio che viene sfidato dal fratello a completare il livello 257 di Pac Man entro il Capodanno del 2000. Il tutto senza potersi alzare dal divano. Ci sono alcuni momenti spassosi, purtroppo anche altri piuttosto disgustosi. Opinione finale: boh…
Tyrel (di Sebastiàn Silva, USA, 2018)
Bollato come “il nuovo Get Out” (penso per la tematica razziale e la presenza di Caleb Landry Jones), in realtà non è un horror ma una semplice commedia drammatica che mette in luce la condizione di solitudine delle persone di colore nell’America “biancocentrica”. Godibile e interessante, ma forse poteva osare di più.
Pretenders (di James Franco, USA, 2018)
Dopo The Disaster Artist, James Franco dirige la storia, ambientata tra gli anni ’70 e ’80, di un triangolo amoroso tra uno studente di cinema, un fotografo e una misteriosa attrice teatrale. Una lettera d’amore alla Nouvelle Vague, ad Antonioni e a Bertolucci, con esplicite citazioni. Un po’ pretenzioso, ma comunque di gran fascino.
Wildlife (di Paul Dano, USA, 2018)
L’attore Paul Dano esordisce alla regia raccontando la disgregazione di una famiglia nel Montana degli anni ’60, sullo sfondo degli incendi che devastano lo Stato. Una pellicola ben diretta e interpretata (ottimi sia Jake Gyllenhall che Carey Mulligan), ma che non mi ha colpito particolarmente. Ha comunque vinto il premio come miglior film.
Az ùr hangja – His Master’s Voice (di Györgi Pàlfi, Canada/Ungheria/Francia/Svezia/USA, 2018)
Dal romanzo di Stanislaw Lem (autore di Solaris), un film complesso e visivamente affascinante (a tratti anche onirico). Un’opera dal genere indefinito (si passa dal road movie al dramma familiare, fino alla fantascienza) che, mettendo in scena la ricerca da parte del protagonista del proprio padre scomparso, affronta alcune delle domande ultime dell’uomo come il mistero delle proprie origini e l’esistenza di Dio.
The White Crow (di Ralph Fiennes, UK/Serbia/Francia, 2018)
Raffinato biopic diretto da Ralph Fiennes (presente anche in veste di attore) sulla vita del ballerino russo Rudolf Nureyev, in particolare sul suo contrasto con il governo sovietico e sulla sua defezione nel 1961. Un inno alla libertà e all’individualità in un mondo chiuso e oprrimente, seppur con qualche salto temporale di troppo.
Le tombe dei resuscitati ciechi / La cavalcata dei resuscitati ciechi / La nave maledetta (di Armando De Ossorio, Spagna/Portogallo, 1971/’73/’74)
I primi tre film della tetralogia dei “resuscitati ciechi”, sorta di versione spagnola della saga romeriana dei “morti viventi”. Delle trashate invecchiate male, con sceneggiature imbarazzanti ed effetti speciali fintissimi. Ma hanno anche dei difetti.
High Life (di Claire Denis, Germania/Francia/UK, Polonia/Canada/USA, 2018)
Vorrebbe essere un film di fantascienza profondo sulla degenerazione della sessualità in un ambiente isolato e senza amore. In realtà, nonostante la buona prova di Robert Pattinson e un’indubbia potenza visiva (in certi punti sembra Interstellar), risulta un mattone deprimente e pieno zeppo di momenti di ilarità involontaria.
All These Small Moments (di Melissa B. Miller, USA, 2018)
Un racconto di formazione in stile John Hughes (non a caso nel cast c’è Molly Ringwald). Piacevole e divertente, ma anche facilmente dimenticabile. Inspiegabile il fatto che fosse in concorso.
Colette (di Wash Westmoreland, UK, 2018)
Film biografico tradizionale ma appassionante sulla scrittrice francese Colette, donna tosta e anticonformista, autrice all’inizio del Novecento di una serie di racconti di successo (di cui si prese il merito il marito Willy). Un’intensa storia di emancipazione femminile, ora più che mai attuale. Ottime le interpretazioni di Keira Knightley e Dominic West, stupenda e accurata la ricostruzione della Parigi della Belle Époque.
La nuit a dévoré le monde (di Dominique Rocher, Francia, 2018)
Una specie di Io sono leggenda ambientato a Parigi (ma recitato in inglese), in cui un uomo, miracolosamente sopravvissuto a un’apocalisse zombie, si ritrova bloccato in un palazzo circondato dagli infetti. Un survival movie teso e inquietante, sorretto perfettamente dal suo unico protagonista (Anders Danielsen).
Unthinkable (di Crazy Pictures, Svezia, 2018)
Praticamente un Alba Rossa in salsa svedese ibridato con il melodramma e il genere catastrofico. Fighissima tutta la parte fantapolitica, grazie anche ad effetti speciali di qualità e a scene d’azione al cardiopalma. Ridicole le sottotrame sentimentali.