Forse non lo sapete, ma si è concluso da poco il 37esimo Torino Film Festival. Anche quest’anno, come il precedente, ho avuto modo di lavorarvi come volontario e, conseguentemente, di accedere gratis a tutti gli spettacoli a cui riuscivo a partecipare. E malgrado abbia dovuto rinunciare, causa turni balordi, a molti titoli che mi interessavano (tra cui Jojo Rabbit e Knives Out), non posso certo dire di esserci andato leggero. Innanzitutto credo di aver stabilito un record per quanto riguarda i film in concorso: ben 5 su 15!
Ma naturalmente non mi sono fermato qui, anzi è parecchio lunga la lista delle pellicole visionate in quest’ultima edizione del Festival. Edizione, tra l’altro, particolarmente virata all’horror rispetto alle annate passate. Se infatti il TFF è noto per avere già una sezione riservata ai titoli più “forti” (la celebre Afterhours), stavolta è stata aggiunta pure una retrospettiva dedicata ai film di paura classici (dall’epoca del muto agli anni ’70) e denominata, con una citazione di melbrooksiana memoria, Si può fare!
È stata proprio questa a darmi le maggiori soddisfazioni, permettendomi di recuperare dei classici che ancora mi mancavano. Le sorprese comunque non sono mancate neanche tra le anteprime, sfortunatamente altrettante sono state le delusioni (almeno due o tre). In ogni caso, a seguire mi premurerò di commentare brevemente tutti i film che sono riuscito a vedere durante il Festival.
Mettetevi comodi…
Dracula (di Tod Browning, USA, 1931)
Vicenda curiosa: nel programma era indicato il film del 1957 con Christopher Lee, invece per errore è stata proiettata (il primo giorno almeno) la versione con Bela Lugosi (come se non bastasse, senza sottotitoli). Poco male, perché ho comunque potuto visionare una pietra miliare del cinema horror, nonché uno dei migliori adattamenti del romanzo di Bram Stoker.
Guns Akimbo (di Jason Lei Howden, Germania/Nuova Zelanda, 2019)
Mi sono sempre chiesto da che film fosse tratta la foto-meme di Daniel Radcliffe in mutande e accappatoio che impugna due pistole con la faccia da pazzo. Ora lo so. Si chiama Guns Akimbo ed è un’action comedy completamente fuori di testa, ipercinetica, violentissima, dalla forte impronta videoludica. E che, dopo Miracle Workers, riconferma il talento comico dell’ex Harry Potter. Ovviamente mi ci sono divertito un mondo!
Blood Quantum (di Jeff Barnaby, Canada, 2019)
Un originale zombie movie con cast composto prevalentemente da nativi americani, che sfrutta l’elemento orrorifico per parlare degli screzi mai sopiti tra bianchi e indiani. Divertendosi nel frattempo a citare abbondantemente il cinema di Tarantino.
Il mostro della laguna nera (di Jack Arnold, USA, 1954)
Un gruppo di paleontologi esplora una laguna nascosta nel cuore del Rio delle Amazzoni e si imbatte in uno spaventoso mostro anfibio. Un classico che non ha bisogno di presentazioni, fonte d’ispirazione principale per La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro.
The Lodge (di Severin Fiala e Veronika Franz, UK, 2019)
Siamo dalle parti di Shining e La Cosa in questo buon thriller psicologico in bilico sull’horror. Inquietante e claustrofobico, The Lodge immerge gli spettatori in un clima di isolamento, paranoia e isteria religiosa, facendo dubitare di tutto e di tutti fino al finale sconvolgente. Ottima la prova di Riley Keough.
Star Stuff (di Milad Tangshir, Italia, 2019)
Diretto nientemeno che da un mio vecchio compagno del DAMS, Star Stuff è un documentario dedicato a tre dei maggiori telescopi astronomici nel mondo e alle piccole comunità che sorgono nei loro pressi. Un’opera poetica e visivamente affascinante, in cui l’osservazione dello spazio profondo diventa l’occasione per riflettere sul rapporto dell’uomo con il creato e con i suoi simili.
La mummia (di Karl Freund, USA, 1932)
Prima di Brendan Fraser e Tom Cruise, c’era Boris Karloff nei panni del sacerdote egizio Imhotep, riportato in vita per errore e deciso a resuscitare la sua amata. Se gli svariati reboot hanno imboccato la strada dell’action avventuroso, la Mummia originale è un film di paura sobrio e a tratti romantico. E va bene così.
Ms. White Light (di Paul Shoulberg, USA, 2019)
La giovane Lex gestisce con il padre una bizzarra attività che offre conforto alle persone prossime alla morte. Ma se ha un talento vero nel relazionarsi con queste ultime, instaurare rapporti con chi è vivo e vegeto è per lei praticamente impossibile. Almeno fino all’incontro con una “cliente” speciale. Vincitore del premio per la miglior sceneggiatura, Ms. White Light è una bella pellicola che diverte e commuove alternativamente, e che invita a vivere a pieno la vita finché possiamo.
Il bacio della pantera (di Jacques Tourneur, USA, 1942)
L’architetto Oliver si innamora della disegnatrice di moda serba Irena e la sposa; ma la donna è vittima di una maledizione che la obbliga a trasformarsi in pantera anche solo con un bacio. Paura della sessualità e differenze inconciliabili tra Vecchio e Nuovo mondo: temi che Tourneur declina sotto forma di un film dell’orrore suggestivo e misterioso, tutto basato sulle ombre e sul “non-visto”.
Il fantasma dell’opera (di Robert Julian, USA, 1925)
La più celebre trasposizione dell’omonimo romanzo di Gaston Leroux, con un Lon Chaney spaventoso ancora adesso sotto quel trucco da lui ideato. Bellissima la scena del ballo, girata sorprendentemente a colori per far risaltare la maschera della Morte Rossa.
Freaks (di Tod Browning, USA, 1932)
Il “circo degli orrori” messo in scena da Browning (con veri freaks dell’epoca) è sconvolgente oggi come allora. Ma la vera forza del film sta nella celebrazione del diverso e nel riconoscimento che spesso sono i “normali” i veri mostri. Peccato solo per il finale palesemente posticcio.
Raf (di Harry Cepka, Canada/USA, 2019)
Raf è una ragazza di Vancouver povera e spiantata. Intrappolata in un’esistenza grigia e monotona, un giorno fa amicizia con Tal, una donna più grande, energica e ricca. Potrebbe essere l’occasione per dare una svolta alla propria vita, ma non tutto va per il meglio. Un film che non mi ha particolarmente colpito, ma che rimane un’interessante parabola sociale sulle differenze (e i conflitti) di classe.
Il grande passo (di Antonio Padovan, Italia, 2019)
A metà strada tra dramma e commedia (più un pizzico di fantascienza), l’opera seconda di Padovan è una splendida favola sull’importanza di seguire i propri sogni, anche quando tutti ti dicono di fermarti. Ironico quando serve, ma capace pure di regalare momenti di sincera commozione, il film funziona soprattutto grazie ai due protagonisti (Stefano Fresi e Giuseppe Battiston, entrambi premiati), ma può contare anche su una regia molto al di sopra della media italiana e su una splendida colonna sonora (composta da Pino Donaggio).
El Hoyo – The Platform (di Galder Gaztelu-Urrutia, Spagna, 2019)
Intrigante satira politico-sociale alla Snowpiercer, ambientata in una prigione-pozzo i cui detenuti, confinati a gruppi di due su livelli differenti, vengono nutriti attraverso una piattaforma che si abbassa progressivamente: più questa scende, meno roba rimane per chi sta in basso. Crudo e violento ai limiti dell’horror, questo thriller distopico non è per tutti, ma è teso e avvincente e la critica alla società capitalista funziona alla grande.
Dreamland (di Miles Joris-Peyrafitte, USA, 2019)
Texas, anni ’30. Una rapinatrice in fuga (Margot Robbie) viene aiutata da un ragazzo affascinato dalle storie di banditi; insieme i due proveranno a raggiungere il Messico. La premessa è interessante, il cast convincente e la regia molto ricercata, con alcune soluzioni visive originali. Tuttavia la sceneggiatura prevedibile, alcuni passaggi troppo repentini e la fastidiosa voce narrante impediscono alla pellicola di risultare memorabile.
Now is Everything (di Riccardo Spinotti e Valentina De Amicis, Italia/USA, 2019)
A mani basse, il film peggiore di questa edizione. La storia di un fotografo in cerca della fidanzata scomparsa, narrata però in maniera sperimentale e surreale, intrecciando passato e presente senza soluzione di continuità. Un neo-noir che vorrebbe essere avanguardista, con un occhio di riguardo a Lynch e a Malick, ma che finisce per essere solo un delirio visivo senza senso, pomposo e inutilmente filosofeggiante, con un montaggio anti-classico più fastidioso che suggestivo.
Queen & Slim (di Melina Matsoukas, USA, 2019)
Un commesso (il Daniel Kaluuya di Get Out) e un’avvocatessa (la Jodie Turner-Smith di Nightflyers), entrambi afroamericani, vengono fermati da un poliziotto violento. Costretti a ucciderlo per legittima difesa, i due scappano attraverso un’America che ora li tratta come eroi ora come criminali. Un magnifico road movie “all-black”, intenso, emozionante e straziante, con una coppia di protagonisti semplicemente perfetta. Un ritratto amaro (ma anche speranzoso) di una Nazione ancora scossa dai conflitti razziali. Forse il mio film preferito del Festival.
Gli invasati (di Robert Wise, USA, 1963)
Prima trasposizione cinematografica de L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, The Haunting (questo il titolo originale) è semplicemente uno degli esponenti migliori del filone “casa infestata”. Nulla a che vedere con il brutto remake di Jan De Bont.
Spider in the Web (di Eran Riklis, UK/Israele, 2019)
Spy story con Ben Kingsley e Monica Bellucci. Un omaggio a John Le Carrè (citato apertamente in una scena) che però fatica a lasciare il segno, perdendosi in svolte di trama confuse, ridicole o poco interessanti. E sì, anche qui la Bellucci recita da cani.