
Trainspotting, il film di una generazione che se la fa addosso
Lo schiaffone in faccia di Danny Boyle a una generazione che ha smarrito la sua via e che resta a guardare la propria vita mentre le sfugge di mano
Guardate con attenzione… state guardando? E poi bum, pugno nei reni, knock out. Game over a San Siro: Trainspotting è così.
Trainspotting ti inganna, ti fa credere di essere un film generazionale, uno di quei film da guardare insieme agli amici per deridere quattro sballati che se la ridono e fanno smorfie da pesce rosso strafatto di ketamina, ma non è così, perché Trainspotting è uno di quei film che a fine visione ti restituiscono a mammà non più come lei ti ha fatto.
Tratto dall’omonimo romanzo di culto di Irvine Welsh (leggetelo, perdio, leggete quel dannato libro!) uscito nel 1993, questo film rappresenta la seconda parte di quello che io chiamo “esordio col Magnum Testarossa tra le chiappe”; sì perché ai tempi (si parla del 1996) il regista Danny Boyle (per chi vuole qui abbiamo già recensito i suoi 28 giorni dopo e Steve Jobs) era praticamente un esordiente, ma si era già portato a casa un bel BAFTA al miglior film per Piccoli omicidi tra amici.
Ambientato in una Scozia di fine anni Ottanta, una Scozia marcia, desolata, degradata, disumanizzata e grottesca nella sua rappresentazione, ci racconta le vicende di un gruppo di amici che si dividono tra serate in pub dal dubbio gusto, discussioni sopra le righe su quale fosse il miglior interprete di James Bond e botte di eroina schiaffata in vena. Protagonista era l’allora giovanissimo Ewan McGregor, oggi una star di calibro internazionale, allora semplicemente un Mister Nessuno che Boyle si era portato dietro dalla sua prima pellicola. McGregor è Renton, uno dei tanti figli di quella generazione perduta che viveva una delle crisi più profonde che mamma Umanità avesse conosciuto e la cui dipendenza dalla droga sta a significare solo e solamente la ricerca di qualcosa che riempia il vuoto di giorni altrimenti insensati.
Boyle miscela alla perfezione ironia, sarcasmo e usa tutti i mezzi tecnici per raccontarci le vicende insensate di persone senza meta, giovani che buttano nel cesso (“Il peggior cesso di tutta la Scozia”) il loro futuro alla ricerca di uno stimolo che non arriva.
Inutile quindi parlare di trama, perché questo film ci dimostra che al cinema la trama è un attrezzo, un accessorio, e non una necessità come sostengono quelli che si indignano di fronte alla mancanza di intreccio di un onesto capolavoro come La grande bellezza. A proposito di bellezza, è incredibile come questo film ne sia pregno pur parlandoci di una delle peggiori brutture immaginabili: il cancro della droga e la perenne ricerca di quello stato di alienazione, dell’ennesima botta, dell’ennesimo buco.
Alla base di tutta la splendida impalcatura di Boyle ci sta l’universo allucinato creato da Welsh, quel microcosmo di anime perdute, ma non per questo prive di vitalità e interesse: prede della loro alienazione nei confronti di una società imbalsamata, di genitori assenti, di salamelecchi inutili e bisogni consumistici che vengono parodizzati nei monologhi interiori di Renton che accompagnano i titoli di apertura e di chiusura.
Anche la colonna sonora è da urlo e si adatta perfettamente al contesto: Perfect day del compianto Lou Reed; Lust for life di Iggy Pop e Born slippy degli Underworld tanto per fare qualche nome
A fondo di tutto questo sta il sentimento di alienazione di una generazione di mezzo, ancorata a una mentalità retrograda e classista, dalla quale cerca in tutti i modi di sganciarsi, ma senza riuscirvi, cadendo così nel baratro dell’eroina, dello sballo perpetuo, dalla fuga da una realtà che spaventa e che fa cagare addosso (anche letteralmente) gli omuncoli che vediamo in scena.
Il film, insomma, ha tutto ciò che serve per assurgere allo status di cult fin dalla prima visione: una regia magnifica, una fotografia acida e smorta che ammazza i colori (l’anti Zack Sneyder, insomma) e che spiaccica tutto quanto in un bidimensionale quadro alla Munch. Un urlo silenzioso che Boyle rimodula in un film che va a cento all’ora, che ti prende alla pancia e non ti molla per un istante.
Trainspotting non teme confronti nemmeno con i suoi tanto illustri precedenti visto che, a mio avviso, piscia tranquillamente in testa a filmoni tanto decantati come Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino e al di poco successivo Requiem for a dream. Si tratta di film diversi, d’accordo, ma che trattano tutti il tema della dipendenza dalla droga in un periodo tanto complesso e stratificato come quello che va dagli anni Settanta alla fine degli anni Novanta; un trentennio che ha cambiato faccia al mondo e i cui stravolgimenti si riflettono su personaggi come quelli di Renton, Spud, Sick Boy e Begbie.
Trainspotting ci racconta dunque di quel contesto preciso, di quel momento preciso, che diventa però simbolo di un disagio profondo, che forse ognuno di noi in qualche modo attraversa, e che forse un po’ di cagarella la fa venire anche a chi crede di avere tutti gli strumenti per arrivare.
Arrivare dove?
Questa la domanda che il film instilla nello spettatore, mentre gli racconta le storie di coloro che non hanno coraggio di alzarsi dalla panchina e salire in carrozza, ma che rimangono fermi a guardare il treno che passa e va.