
Tre manifesti a Ebbing, Missouri: un fosco e cazzuto gioiello del cinema
Possiamo andare molto fieri del Festival del Cinema di Venezia, in Italia: da diversi anni a questa parte i film che vengono presentati durante la rassegna – penso a Gravity, Birdman, La La Land – non solo finiscono dritti alla stagione dei premi americana, ma sono film che segneranno fortemente questo periodo storico, anche a lungo termine.
Forse Venezia porta bene, o più probabilmente al Festival sono molto bravi a selezionarli.
Quest’anno al Lido siamo stati benedetti da più di una pellicola notevole ma quella che io considero essere stata la migliore in assoluto di tutta la rassegna è Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Infatti, quattro mesi fa (trovate qua l’articolo) avevo avuto modo di parlare ampiamente di questo film e di quanto mi fosse piaciuto.
Tanto.
È un onore per me essere qui ancora oggi a spiegarvi perché dovete correre al cinema a vederlo ora che finalmente è in sala.
Martin McDonagh è un regista molto interessante. Tre manifesti è solamente il suo terzo film, ma ha già avuto modo di farsi notare con i suoi due lavori precedenti: In Bruges e 7 psicopatici, entrambi intrisi di una comicità nera, raffinata e iperrealista. Che ritroviamo in qualche modo anche qui, in questo Tre manifesti, il corrispettivo cinematografico di un quadro di Edward Hopper.

Cosa fa la forza di questa pellicola? Innanzitutto una sceneggiatura d’acciaio – per il quale Martin McDonagh è stato premiato sia al Festival di Venezia che ai Golden Globes -, che costruisce una storia su più livelli di significato morale.
Vi riprendo la trama in breve:
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Una donna di Ebbing – cittadina dell’America profonda – è in collera con la polizia perché sembra aver smesso di cercare l’assassino di sua figlia. Decide di affittare tre grossi billboard pubblicitari subito fuori il paese, cadenti e non utilizzati fin dagli anni Ottanta, per affiggere un messaggio diretto allo sceriffo. Il succo del messaggio è: perché la polizia non sta facendo niente perché sua figlia abbia giustizia?
I concittadini, incluso il figlio maschio, non apprezzano il gesto della donna, considerato poco opportuno poiché lo sceriffo è molto benvoluto dalla cittadinanza e, soprattutto, è malato gravemente di cancro al pancreas. A notare per primo l’affissione e a incazzarsi particolarmente è l’agente Dixon – personaggio che è in qualche modo “l’altro protagonista” del film.
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Il film non è però da considerarsi un giallo, o un thriller: più che la risoluzione della vicenda, quello che conta davvero è l’evoluzione dei personaggi. McDonagh riesce a disegnare con le sue pennellate hopperiane un piccolo universo urbano di cui ci sentiamo parte, fatto di persone appena un po’ bizzarre ma realistiche proprio nel loro essere tipologie umane che, tutto sommato, non sono poi così estranee al nostro vissuto.
L’altra grande forza di questo film è infatti la scrittura dei personaggi, che ci si potrebbe aspettare come caricature rigide e fisse e sono invece pieni di sfumature. La protagonista Mildred, interpretata da Frances McDormand, è una donna dal temperamento lucido e saldo, che in nessun punto del film accetta di farsi piegare dagli altri, ma allo stesso tempo tormentata dalla fragilità del senso di colpa. Il percorso del film è anche la sua elaborazione del lutto.
All’inizio, il suo personaggio e quello dello sceriffo – Woody Harrelson – appaiono antagonisti in profondo conflitto, ma a sua volta l’uomo non sarà un’entità del tutto negativa. Funestato dai suoi personali demoni, tanto seri da distrarlo dal suo lavoro, assumerà nel film un ruolo del tutto inaspettato – che non posso dire per non fare spoiler.
Chi però secondo me su questo film svetta sugli altri è l’agente Dixon di Sam Rockwell: un personaggio grandioso reso alla perfezione da un attore che, finora, abbiamo incontrato più spesso in contesti commerciali e comici. L’individuo tratteggiato da McDonagh e Rockwell è “crudele per ingenuità” in modo fin troppo realistico: uno di quei poliziotti convinti che indossare una divisa coincida con la solidarietà di categoria, il razzismo, l’omofobia e la misoginia, un indottrinato alla violenza con la mente di un bambino. La sceneggiatura, anziché risolvere il personaggio con soluzioni prevedibili, lo trasforma nell’altra faccia della medaglia di Mildred, seguendo da vicino la sua evoluzione psicologica.
McDonagh ha una simpatia umana per tutti i suoi personaggi e si capisce, la trasmette a noi per primi. Nella società contemporanea, funestata dalla battaglia ormai quotidiana non più tra bene e male ma tra cinismo e buonismo, il film di McDonagh fa un dito medio a entrambi e si colloca esattamente nel mezzo dei due, di fatto spazzandoli via.
Mentre scrivo il film è fresco di vittoria ai Golden Globes. Si è portato a casa infatti i premi per Miglior film drammatico, Miglior attrice protagonista a Frances McDormand, Miglior attore non protagonista a Sam Rockwell (strameritato, speriamo che bissi con l’Oscar) e Miglior sceneggiatura (come a Venezia).
Andrà senz’altro agli Oscar e spero che verranno prese in considerazione pure la fotografia e la scenografia, che fanno sembrare il film un prodotto della Pop Art: l’ambientazione infatti è, come accennato, quella dell’America rurale, il film ne fa sentire l’umidità, gli odori, la fuliggine, persino l’aria densa.
Niente, sono stata talmente investita dal fuoco sacro di questo film – e il fuoco, nel film, avrà un ruolo importante – che non sono nemmeno stata particolarmente spiritosa, ma vi posso assicurare che è anche un film divertente, denso di humor nero e non solo. E insomma, ci penserà lui a farvi ridere e anche a emozionarvi, parecchio.
Citando la me stessa di quattro mesi fa: ve lo straconsiglio, e io straconsiglio raramente.