Spotlight

La trilogia degli emarginati di Shyamalan, altro che supereroi

Sento subito l’esigenza di dire una cosa: ma quanto è invecchiato male Bruce Willis? Per carità non pretendo che sappia recitare – voglio dire non sapeva farlo da giovane, non vedo perché dovrebbe essere capace adesso che è in decomposizione – ma ormai non è nemmeno più capace di muoversi, sembra che abbia le braccia anestetizzate: una marionetta sostanzialmente, ma senza il marionettista che lo muove. Il povero Shyamalan d’altronde i miracoli non li sa fare mica, per fortuna però ci ha fatto un grosso regalo lasciando al vecchio Bruce pochi minuti all’interno della pellicola. Grazie Manoj Nelliyattu.

bruce willis glass
Oh ti hanno già trovato la casa di riposo, allora tutto a posto, sto tranquillo.

Va bene, ma noi non siamo qui per rendere il povero Bruce consapevole del suo triste destino (tranquillo Brucie boy, prima o poi tocca a tutti). Siamo qui invece per guardare più da vicino l’atipica trilogia sui supereroi creata dal buon Shyamalan. A me però l’epiteto “trilogia sui supereroi” non piace, non so, non calza bene rispetto alla filosofia contenuta nei 3 film, per la precisione direi che mi fa cagare quest’epiteto. E quindi, siccome inoltre non esiste un nome ufficiale per questa trilogia, ho deciso che la chiamerò La trilogia degli emarginati. Per chi non avesse ancora capito sto parlando della trilogia composta dai film UnbreakableSplit e il recentemente uscito nelle sale Glass.

ATTENTI AGLI SPOILER!!!

glass
James McAvoy in versione Brock Lesnar.

Considerazioni tecniche preliminari

Il mio punto di vista è che Shyamalan abbia progressivamente dimenticato come si gira un film. Badate bene, sto parlando considerando esclusivamente il punto di vista tecnico, al resto arriveremo dopo.

Partiamo dall’inizio, con Unbreakable. Mi sono letteralmente innamorato di questo film la prima volta che l’ho visto perché era incredibilmente intimo, autoriflessivo e intrigante al punto giusto, ed era inoltre capace di mescolare questi 3 elementi con l’epica: ma non un’epica folle, eccessivamente celebrativa o totalmente estranea da un contatto col mondo reale; al contrario era un’epica del quotidiano, in cui un uomo comune scopre le sue doti soprannaturali. Senza scomodare un gigante della letteratura quale è James Joyce, ma almeno a livello preliminare (e assolutamente non oltre) David Dunn non è così distante da Leopold Bloom.

Tutto ciò era armonicamente rappresentato dal mezzo registico, con inquadrature a tratti molto ravvicinate e primi piani intensi che si danno il cambio con inquadrature che accentuano il senso di distanza per esprimere la confusione che alberga nell’animo del protagonista: ottime e geniali in questo senso le riprese da lontano o quelle effettuate per mezzo degli specchi.

unbreakable
Bruce Willis che ha quasi un’espressione.

In Split questa sorta di “aura” magica che Shyamalan aveva creato va un po’ a perdersi per far spazio al disturbo mentale e avvicinarsi all’horror, N.d.R.: non è assolutamente un male, ma è un cambio di tono significativo. Tant’è che Split non si presenta come il diretto successore di Unbreakable, ma è sostanzialmente una storia parallela che viene sviluppata per ricongiungersi poi dove Unbreakable si era fermato. E fin qui tutto bene. E va bene anche la regia di Shyamalan, ripeto: ha solo cambiato tono, infatti Split a livello tecnico puro è forse anche superiore ad Unbreakable, ciò che gli manca è la sostanza che si lega alla forma della rappresentazione.

Detto in parole semplici: mentre in Unbreakable si aveva un significato, una storia che a livello emozionale e tonale andava a braccetto con la tecnica registica, in Split abbiamo un livello tecnico molto buono, ma che è buono solo in virtù della tecnica e che non si lega indissolubilmente alla cosa rappresentata. È questo il punto di crisi decisivo che innesca la caduta precipitosa di Shyamalan in Glass. Abbiate pietà, mi servirebbero altre 10 righe per spiegarvi bene che cosa intendo.

split
James McAvoy e l’mdma.

E arriviamo a Glass. Il problema iniziale di questo film è che Shyamalan si è dimenticato di essere un buon regista e l’ha quindi girato in modo mediocre: apprezzabili i giochi con le luci e qualche eco delle stupende inquadrature di Unbreakable, ma solo vaghi ricordi sbiaditi. Nel complesso è un film, a livello tecnico, appena appena sufficiente. Questa volta il punto cruciale non è il cambio di tono, ma la mancanza di una costruzione significativa dell’intreccio, che sostanzialmente è riassumibile in 3 punti: i 3 “supereroi” finiscono insieme in manicomio; quasi li convincono di essere solo dei disturbati e di non avere nessuna dota straordinaria; si picchiano fortissimo e muoiono. Che con tutto il rispetto è una trama più da cinecomic canonico, che da pellicola esistenzialista mascherata da cinecomic (quali erano UnbreakableSplit). Ah no scusate, nei cinecomic i supereroi non muoiono… forse.

Sembra quasi che Shyamalan, conscio del fatto che Glass avrebbe avuto una risonanza nel pubblico di gran lunga più estesa di quella dei suoi predecessori, non abbia voluto rischiare, producendo un film dallo stile piatto che appiattisce anche il marchio di fabbrica del regista: il colpo di scena, che si banalizza. Ciò che non è piatto è il contenuto dei pantaloni dei signori uomini alla visione di Anya Taylor-Joy.

anya taylor joy glass

La tematica dell’emarginazione

Ciò che tiene insieme i 3 film, oltre ovviamente alla trama che li ricollega, è l’insistenza significativa e il ruolo predominante che Shyamalan ha voluto attribuire al tema dell’emarginazione, che permette alla trilogia di distinguersi da qualsiasi altra serie di cinecomic. È come se il regista tenesse costantemente accesa nelle nostre teste una specie di campanella che ci ricorda che i protagonisti sono persone normali, ma con doti soprannaturali.

Già l’ambientazione rende la trilogia unica nel suo genere. Mentre in un normale cinecomic non potrebbero esistere i fumetti, qui esistono e sono il cardine strutturale sul quale si sviluppa l’intera trilogia. Mentre in un cinecomic le peripezie in cui vengono coinvolti i supereroi sono vere e proprie faccende oltre-umane, con mostri, super-cattivi ed esseri provenienti da altri mondi da sconfiggere, qui non c’è niente che evada la dimensione mondana, se non le qualità più-che-umane dei protagonisti. E mentre in un Watchmen (parlo del fumetto in primo luogo) i supereroi, seppur messi al bando e perseguitati, vengono comunque riconosciuti socialmente e accettati come realmente esistenti, qui le super-qualità dei protagonisti sono viste come fantasie della loro mente e i supereroi non esistono (o comunque la loro esistenza viene celata).

A questo punto scatta la tematica dell’emarginazione: i supereroi in questa trilogia non sono altro che individui marchiati con l’epiteto di “diverso”, riconosciuti nella società per la loro diversità, considerata in senso negativo in quanto deviante dalla norma. E quindi i supereroi, grazie al finale di Glass, diventano la metafora dell’emancipazione del diverso o, per usare un gioco di parole carino, l’emancipazione dall’emarginazione, di cui l’Orda è una straordinaria sintesi concettuale.

glass shyamalan
Un giorno ci accorgeremo della bravura fuori dal comune di questo attore.

Scavo psicologico

Prima dicevo che Unbreakable Split sono pellicole esistenzialiste. Intendo esistenzialista nel senso etimologico del termine, cioè proprio dell’esistenza, che quindi produce una riflessione sull’esistenza. È chiaro che questo tipo di prospettiva non può escludere una riflessione filosofica. Ma Shyamalan produce piuttosto una riflessione di tipo morale, riassumibile in: il mondo è stronzo e fa soffrire gli emarginati solo perché sono diversi. E ancora una volta il personaggio interpretato da McAvoy è una sintesi perfetta di questo pensiero: un uomo che per trovare una risposta individuale al mondo deve rinunciare alla sua individualità e splittarsi in varie persone che sono il risultato del trauma che prima la sua vita privata e poi la sua vita in società gli hanno inferto.

Emerge così tutta l’importanza dell’analisi psicologica che Shyamalan usa per esplorare sia i suoi protagonisti che le sue tematiche: lo scavo psicologico è necessario perché i protagonisti sono “diversi” in virtù delle loro esperienze vissute, che li hanno resi così come sono. E il regista in Glass sfrutta ottimamente questo livello di analisi, perché a un certo punto i personaggi sono indotti a dubitare della diversità così faticosamente accettata. Sostanzialmente i personaggi nelle prime due pellicole lottano, contro se stessi e contro il mondo, per affermare la propria diversità, dalla quale non possono sfuggire, ma in Glass quella specie di equilibrio raggiunto si rompe (ironia del titolo?) finendo nel dubbio. Tuttavia quel dubbio è necessario per sfociare nella riaffermazione del diverso che culmina nella notorietà dei supereroi.

shyamalan

Premesse straordinarie, risultato commerciale

Ciò che manda a puttane questo grandioso e assolutamente costruttivo universo immaginativo è, purtroppo, ancora una volta Glass; ma non per il film in sé, piuttosto per i mezzi che Shyamalan ha utilizzato per dare conclusione ed efficacia alla sua poetica: mezzi commerciali. Troppo didascalici, schematici e canonici gli intrecci usati per far incontrare i personaggi, troppo banalmente scontate le loro azioni, troppo intelligente Mr. Glass, che praticamente vanifica ogni tentativo degli antagonisti ancor prima che dia l’impressione di poter funzionare. E poi le strizzatine d’occhio a moduli abusati dai cinecomics, come le battutine o gli intermezzi semi-comici inseriti per spezzare la tensione, o ancora l’idea del combattimento finale. Da un lato questi elementi dimostrano un attento aggiornamento alla massificazione del cinecomic, dall’altro però comportano quasi un costretto adeguamento ai mezzi stessi del cinecomic, al quale Shyamalan ha sempre dato l’impressione di guardare con distacco.

Il risultato è un prodotto molto più fruibile, ma molto meno interiorizzabile (e difatti il momento più alto di Glass è proprio quello in cui Sarah Paulson analizza l’interiorità dei 3 protagonisti), che però è in contrasto col progetto originario della trilogia. Mi spiego meglio. Shyamalan ha raggiunto il suo obiettivo: è stato capace di veicolare il suo grido all’accettazione del diverso. Ma mentre in partenza la considerazione del diverso era strutturalmente integrata nel modo di fare cinema, con lo svilupparsi della trilogia il tono della rappresentazione si è sempre più adeguato a moduli d’indole commerciale e quindi socialmente accettati, il che comporta una messa da parte del diverso. Sostanzialmente Shyamalan per celebrare il trionfo del diverso ha dovuto ricorrere a tecniche espressive che sono l’opposto di esso, il che, a mio parere, comporta un fallimento del progetto originario.

glass shyamalan

Mario Vannoni

Un paesaggio in ombra e una luce calante che getta tenebra su una figura defilata. Un poco inutile descrivere chi o cosa sono io se poi ognuno di voi mi percepirà in modo diverso, non trovate?
Back to top button