L’abbiamo attesa per quattro anni, ormai avevamo smesso di sperare, ma Pizzolatto ha fatto il miracolo e finalmente è arrivata: il 14 gennaio sono usciti i primi due episodi di True Detective 3.
“Il giorno in cui morì Steve McQueen”
1980: Arkansas, altopiano di Ozarks, Will e Julie Purcell, di 12 e 10 anni, spariscono nel nulla. I detective Hays e West vengono incaricati del caso.
1990: quando grazie a un nuovo, scioccante elemento, il caso viene riaperto, il detective Hays viene messo davanti a una telecamera e costretto a rilasciare una deposizione riguardo alle indagini di dieci anni prima.
2015: l’ormai settantenne detective Hays – oltre a fare i conti coi fantasmi del passato – deve confrontarsi con la demenza senile mentre partecipa a un’intervista-documentario sul caso Purcell.
Impossibile non cominciare dal tempo, dunque, perché è lo stesso Pizzolatto a suggerircelo, con tre storyline comunicanti, un circuito narrativo in cui è facile perdersi e dove la memoria e il tempo sono gli assoluti protagonisti. Il tempo, già. “Time is a flat circle” diceva Rust nella prima ineguagliabile stagione, e “Time is a flat circle” pare essere il mantra anche di questo True Detective 3: 8 episodi che tutti noi vogliamo su livelli altissimi, anche perché la cocente delusione della seconda stagione californiana ce la portiamo ancora addosso.
Dopo il magistrale duetto Harrelson-McConaughey, dopo l’ammucchiata insensata Farrell-Vaughn-MacAdams-Kitsch, in True Detective 3 lo showrunner Nic Pizzolatto decide di concentrare tutta l’attenzione su un unico protagonista, il detective Wayne “Purple” Hays interpretato dal già premio Oscar Mahershala Ali (Moonlight).
Come era inevitabile lo show poggia interamente sulle solide spalle di Ali, che tiene botta dando corpo e anima a tre versioni diverse della stessa persona, un detective-veterano del Vietnam via via più infiacchito dal passare del tempo e dal rimorso di un errore che determinerà la sua intera esistenza.
Ci sono luci e ombre in questi primi due episodi della serie: Pizzolatto pare avere ripreso in mano il brand con brio e la solita capacità di tratteggiare personaggi a tutto tondo, complessi, rotti dentro, figli di un’America marcia e desolata, questa volta rappresentata dall’altopiano di Ozarks, che puzza di Twin Peaks lontano un miglio. Boschi e segreti, buzzurri e misteri, razzismo e bullismo, bifolchi e birra scadente, il tutto procede in un mix tremendamente interessante che si fa seguire alla perfezione fin dai primissimi minuti. I primi due episodi riescono nell’intento di risultare introduttivi, ma senza appesantire lo spettatore con prolissi spiegoni e dialoghi posticci, ma gettandolo immediatamente in medias res, all’interno di un caso che pare inesauribile e infinito, che attraversa vite, ossessiona i sogni, spacca famiglie.
Il meccanismo narrativo (e qui veniamo alle poche note dolenti) è ben oliato, ma ricalcato pari pari (fin troppo) su quello della prima stagione: telecamera, detective che subisce un interrogatorio perché il caso che lo ha consacrato agli onori delle cronache si è riaperto a causa di nuovi inquietanti dettagli. Il racconto, sofferto e dolente attraversa le miserie di personaggi vividi, realistici e in crisi di identità.
Qual è il problema?
Per il momento manca ancora il sentore di oscurità, la percezione vaga e indistinta che dietro questo caso apparentemente semplice si muova un mostro, un essere abominevole, uno Yellow King. Per ora molto è ancora affidato al non detto, a errori appena accennati, a segreti inconfessati e si sente la mancanza di quella cappa di tenebra e marciume che aleggiava sulla Louisiana di Marty e Rust.
I personaggi secondari funzionano, anche se tutti risultano decisamente meno approfonditi di Hays. La moglie ad esempio: brava donna, buona insegnante, combattente per i diritti dei neri, scrittrice, sì, ok, ma per ora è comunque piatta; West, il partner di Hays, invece, nonostante abbia uno spazio considerevole, è piuttosto anonimo e si avverte proprio l’alone di personaggio secondario.
D’ora in poi lo chiameremo Iolao, anche visto il biondo crine.
Il personaggio di Hays, però, oltre a essere interpretato alla grande, riesce a convincere in tutte e tre le linee temporali che ci vengono presentate: si passa dalla sua versione giovane, gagliarda e indipendente del 1980 a quella più seria e responsabile (da buon padre di famiglia) del 1990, fino a quella in crisi e anziana del 2015. Proprio quest’ultimo può rappresentare la vera novità di True Detective 3: il poliziotto che deve fare i conti con la perdita progressiva della propria memoria, dei propri ricordi, della propria identità in un momento decisivo, ovvero quando scopre che il lavoro non è finito e che c’è ancora qualcuno da prendere.
Anche in questo caso però lo stratagemma narrativo, il “lavoro non finito”, l’ “abbiamo preso l’uomo sbagliato” riconnette inevitabilmente la terza stagione alla prima, un’altra di quelle somiglianze che, se ci mettiamo ad elencarle, sono già parecchie per i primi due episodi. Questo ci conduce forse a un giudizio negativo? Niente affatto. Questi primi 120 minuti hanno confermato che i prodotti HBO e in particolare True Detective sono sempre sopra la media delle serie comuni (seconda stagione compresa, che sfigura solo se paragonata alla prima); anche la regia di Jeremy Saulnier è ottima e riprende molto quella di Cary Joji Fukunaga (regista della prima stagione e sceneggiatore di It).
Non sarà stato un esordio fulminante, qualche piccola ruga la intravvediamo, ma il viso di questa terza stagione si presenta radioso e carico di buone aspettative, vediamo cos’ha in serbo per noi il signor Pizzolatto, sperando che l’intrigo sia sempre più dark e che Iolao non cambi mai pettinatura.
Ci vediamo a Carcosa.