Premessa: Umbrella Academy non mi è piaciuto, ma non ho letto il fumetto. La nuova serie targata Netflix, disponibile dal 15 febbraio, è tratta infatti dall’omonima serie Dark Horse comics, ideata da Gerard Way (già frontman dei My Chemical Romance) e trasposta da Steve Blackman. Leggerò probabilmente, che ho sentito definire grottesco, dopo essermi andata a informare a seguito della tremenda delusione. Ma, appunto, parliamo della serie.
Quarantatré donne nell’arco di una giornata restano incinta e partoriscono. Sette di questi bambini vengono adottati da Sir Reginald Hargreeves, un eccentrico milionario (non finiscono mai, sette di eccentrici ricconi) che li educa e li trasforma in seguito al palesarsi dei loro poteri in piccoli supereroi/macchine da guerra.
C’è un po’ di tutto, una bella fauna: il fortissimo Luther (Tom Hopper, il caro Billy Bones di Black Sails), Allison capace di essere molto persuasiva (Emmy Raver-Lampman), Diego esperto in lancio coltelli e arti marziali (David Castañeda), Klaus capace di vedere i defunti (Robert Sheehan, tra l’altro andatevi a vedere quanti anni sono passati da Misfits) sempre in coppia con Ben essendo questo deceduto ma capace in vita di lasciar uscire fuori di sè un mostro (Justin H. Min).
Infine Number Five (qui ottimo casting, Aidan Gallagher) capace di teletrasportarsi e Vanya (Ellen Page) la pecora nera della famiglia, visto che come suo padre le ha sempre freddamente ricordato: “You’re just not special”.
Un padre freddo e calcolatore, una madre che altro non è che un AI e uno scimpanzé come maggiordomo, poco a poco i fratelli Hargreeves abbandonano il tetto famigliare e si allontano uno dall’altro, continuando a crescere ovviamente come perfetti dissociati. Si riuniscono una volta deceduto il padre e al suo funerale ricomparirà anche Number Five, scomparso sedici anni prima. Questo più o meno il contesto. Contesto che potevo riassumere con: i Tenenbaum con i superpoteri e i problemi di una famiglia raccontata da Jonathan Franzen.
Il problema di Umbrella Academy è che semplicemente fa tante cose ma nessuna di queste resta coerente con le altre nella visione: il risultato è molto sottotono rispetto le premesse iniziali. Le bizzarrie non sono così bizzarre, o almeno c’è sempre qualcosa che le frena e ogni nuovo svelamento o capovolgimento nella situazione manca completamente di pathos. Umbrella Academy sembra non tenere conto che là fuori ci sono altri milioni di prodotti che si approcciano al weird (serie completamente diversa ma con intenti affini è Russian Doll, sempre su Netflix, che invece è completamente vincente nel riunire drammaticità e weirdness fuori controllo).
L’intreccio si allenta, crea enormi pause che appesantiscono la visione, questo ancora a causa della mancanza di coerenza. Il cuore della serie, ovvero la rappresentazione della difficoltà dei rapporti sociali del valore della famiglia, è sconnesso e molto marginale. Vanya, punto forte di tutto questo, essendo emarginata, depressa e con scarsa autostima ha una voce che non emerge abbastanza. Parallelamente il duo Hazel e Cha-Cha (Cameron Britton e Mary J. Blige) continuamente a caccia di Number Five creano siparietti pulp che lasciano lo spettatore per un attimo incantato ma poi si scollano rispetto a tutto il resto. La sensazione che si ha è che la serie sia molto sgraziata. Sembra esserci così tanto da fare là fuori, nelle trame, nell’atmosfera appena grottesca che a tratti riemerge da tutte quante le storie, eppure sembra che non stia succedendo niente.
Umbrella Academy è un piatto appetitoso che ha però un sapore che non resta in bocca, qualcosa che scivola via molto velocemente. Soddisfa qualche voglia superoistica, crea una leggera atmosfera surreale, ma non è comunque sufficiente, sia nel confronto sia nel reggersi da sola in quel tipo di universo che vuole rappresentare.