
Un borghese piccolo piccolo, un film di Monicelli con un Sordi grande grande
Il 29 novembre 2010 Mario Monicelli, uno dei più celebri registi nostrani, decise di porre fine alle sue sofferenze (era gravemente ammalato) gettandosi dalla finestra dell’Ospedale presso cui era ricoverato, all’età di 95 anni.
Per ricordarlo ritorno con piacere alla mia vena drammatica (ultimamente solo recensioni “allegre”) per parlarvi di un film di Monicelli che ha lasciato un’impronta indelebile su di me: Un borghese piccolo piccolo (1977).
Per chi se lo stia chiedendo, sì, anche questo film l’ho visto con mia madre, la quale prova evidentemente gusto nel traumatizzare la sua impressionabile prole.
Giovanni Vivaldi/Alberto Sordi è un semplice impiegato la cui unica aspirazione è veder sistemato il figlio Mario/Vincenzo Crocitti, neodiplomato ragioniere.
Pur di far entrare il giovane, non particolarmente sveglio, nell’ufficio in cui lavora, Giovanni è disposto a tutto, persino a entrare in una loggia massonica per guadagnarsi il favore dei suoi superiori.
Grazie alle manovre del genitore, Mario ottiene in anticipo il testo della prova scritta del concorso: la mattina dell’esame però Mario e Giovanni si trovano in mezzo a una sparatoria e una pallottola vagante uccide il ragazzo.
Alla notizia della morte del figlio, Amalia Vivaldi/Shelley Winters viene colpita da un malore che la rende completamente invalida, mentre Giovanni, fuori di sé per il dolore, matura l’idea di farsi giustizia da solo.
Al di là della vicenda drammatica in se stessa (la scena della morte di Mario è tra le più strazianti di sempre, altro che Simba che piange sul cadavere di Mufasa), in cui Sordi dà prova di essere perfettamente in grado di calarsi in un ruolo così difficile, il topic fondamentale di Un borghese piccolo piccolo è il ritratto della società italiana che ne emerge.
Un sistema di reciproco do ut des, di illegalità non solo accettata ma anche favorita che potrebbe dare a questa pellicola il titolo altisonante di “film di denuncia”, che tanto piace a noi di sinistra: onestamente non penso fosse questo l’intento di Monicelli.
Monicelli non denuncia, casomai ci sbatte davanti la verità: non propone eroi che riportino la giustizia, il suo stesso protagonista non è certo un modello comportamentale, per aiutare il figlio non si fa scrupoli.
L’Italia è così, senza speranza, ci dice il regista: il suo unico intervento consiste, con il suo humor nero, nel sottolinearne la ridicolaggine, la mancanza di dignità.
Anche la vittima, Mario, rappresenta un stereotipo ben delineato nel nostro immaginario: il figlio un po’ grullo che ben volentieri si fa raccomandare dal padre, a sua volta genuflesso davanti ai suoi capi.
G.: «Mario, non siamo soli, dietro di noi c’è il Grande Incognito, il Capo sconosciuto della massoneria. Stiamo calmi, e se facciamo il nostro dovere, coll’aiuto di chi può, ce la faremo».
Neppure le nuove generazioni sono portatrici di cambiamento, anzi si adattano senza difficoltà al modus operandi consolidato, questo è il messaggio.
L’unico personaggio con una qualche parvenza di morale? Amalia, la reietta di casa Vivaldi.
Moglie e madre devota, non a caso alla morte del figlio rimane gravemente invalida e muta: pur non approvando la condotta del marito, non può far né dire niente per fermarlo.
Quasi fosse la coscienza messa forzatamente a tacere.