Film

Un divano a Tunisi: psicanalisi spiccia, innocui stereotipi e qualche sorriso

Si sa, da un annetto a questa parte viaggiare è diventato un’utopia, e allora viaggiamo con la mente, però occhio che a forza di viaggi mentali si rischia di uscire di senno. Questo, in due parole, quello che mi ha spinto alla visione di Un divano a Tunisi, film del 2019 nonché opera prima della regista e sceneggiatrice Manele Labidi Labbé. Questo, e il fatto che sia stato paragonato al Woody Allen dei tempi d’oro, prima che venisse travolto dal #metoo e dai tentativi, finora fortunatamente fallimentari, di damnatio memoriæ: psicanalisi e autoironia, ma in mezzo alla sabbia anziché a Manhattan.

Ebbene: sì, Un divano a Tunisi potrebbe ricordare alcune delle migliori commedie del nostro; una copia carbone, per la precisione. Se non fosse che, beh, le ha fatte prima lui, e con una cinquantina d’anni di anticipo. Non fraintendetemi: Un divano a Tunisi è un film godibilissimo; solo, non inventa nulla. Ma tanto, che altro c’è da fare la sera?

Viaggiare, dicevamo: è quello che decide di fare Selma (Golshifteh Farahani, intravista agli inizi in Pollo alle Prugne e che a ogni film conferma di saper spaziare tra i generi), psicanalista parigina di origini tunisine che decide di abbandonare la Ville Lumière per fare ritorno alla madre patria. Le ragioni sono varie e piuttosto fumose: desiderio di ritrovare le proprie radici, stanchezza per la scintillante vita parigina, sensazione che il suo lavoro possa essere più utile a Tunisi. I maligni potrebbero dire che è solo per via della concorrenza troppo spietata in Francia, ma sorvoliamo. Perché se a Parigi in effetti gli psicologi sono due per palazzo e dieci per strada, a Tunisi la sola idea di pagare per chiacchierare è pura fantascienza: perché uno dovrebbe buttare così i suoi soldi, quando puoi farlo dal parrucchiere e in più ricevere una messa in piega con contorno di pettegolezzi?

È superfluo dire che, dopo le resistenze iniziali, tutta la città scoprirà di non poter fare a meno di questa strana strizzacervelli: panettieri dall’identità sessuale confusa che sognano amplessi con Putin, intellettuali aspiranti suicidi, ragazzine smaniose di libertà, e uno stuolo di casalinghe con un’infinità di problemi che non sapevano di avere. È altrettanto superfluo svelare che la vita di Selma non sarà facile, tra cavilli burocratici, automobili d’antan, poliziotti ostili ma solo all’apparenza (Majd Mastoura), e gli ovvi pregiudizi del caso; ma indovinate un po’, la nostra eroina non ha alcuna intenzione di mollare.

Un divano a Tunisi, dicevamo, regala un’oretta di pura piacevolezza: per tutta la durata del film non succede niente che lo spettatore non si aspetti, e proprio per questo di questi tempi difficili si rivela un toccasana per la mente – molto più di una seduta di analisi, tanto per restare in tema. Dall’inizio alla fine, le peripezie di Selma ci regalano una sfilza di stereotipi più o meno divertenti, tipici tanto di Tunisi quanto di un qualsiasi ufficio pubblico italiano: funzionari che passano il tempo a mangiare, vendere merce contraffatta sottobanco e ciarlare, ma che in fondo hanno un cuore d’oro; saloni di bellezza con canoni estetici fermi agli Anni Ottanta; palazzi che sembrano case di ringhiera, dove tutti conoscono tutti e la privacy sembra un miraggio.

Per restare fedele all’etichetta di commedia brillante, ma anche delicata, Un divano a Tunisi ci regala anche qualche pillola di tenerezza: uomini che non riescono a fare i conti con una società in evoluzione, donne di mezza età che mascherano le loro insicurezze sotto strati di fondotinta, nonni che neppure sanno cosa sia la primavera araba. Menzione d’onore a Feryel Chammari, perfetta nel ruolo di parrucchiera esuberante e un filo nevrotica.

Un divano a Tunisi non mi smuove dai miei pregiudizi, riassumibili nella massima “un’ora di shopping è più efficace di qualunque terapia”: ma è un buon modo per svagarsi, sorridere, e immaginarsi altri mondi.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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