E il momento di cui si parlava ieri è giunto: abbiamo visto i primi due episodi di The Young Pope. Togliamoci subito il doloroso cerotto con questa premessa, che vi serve solo per capire da che punto di vista parto io per giudicare Paolo Sorrentino (argomento su cui non esistono credo due persone in Italia che abbiano la stessa opinione). Personalmente appartengo a quella categoria che considera La grande bellezza il suo capolavoro e Youth – La Giovinezza una cagata pazzesca. Cito i suoi ultimi due perché credo che siano emblematici per descrivere quello che è secondo me il difetto maggiore del regista: quando molla un poco le redini, ha dei veri colpi di genio.
Quando invece è trattenuto, sente di dover dimostrare al mondo che lui è un Autore, ecco che allora viene soffocato dal Complesso di Fellini che lo consuma e confeziona dei film che sono pura forma, senza contenuto (o con un contenuto talmente tiepido da diventare, almeno ai miei occhi, forma). So bene che molti spettatori attribuiscono questa colpa già a La grande bellezza, mentre quegli stessi difetti io li sento prepotentemente nel film successivo.
Bene: con The Young Pope, progetto che mi rendeva in qualche modo perplessa (quelle idee che, quando le leggi sulla carta, ti fanno commentare “ma perché?”), Sorrentino confeziona un prodotto che ha tutti i germi del Genio. Jude Law si rivela un casting azzeccatissimo per questo Papa che è un po’ rockstar, un po’ Kuzco de Le follie dell’imperatore: un personaggio magnetico di cui, per più di 100 minuti, non riusciamo a comprendere la psicologia che lo muove né le intenzioni. Sara l’ha paragonato al Frank Underwood di House of Cards per la sua doppiezza, questa moralità dubbia che lo caratterizza e che noi spettatori, almeno fin dove siamo arrivati, non abbiamo modo per inquadrare.
Tornano gli elementi kitsch e le esagerazioni che tanto avevo amato nella sua pellicola vincitrice dell’Oscar, e naturalmente torna Roma, anzi, Città del Vaticano, di cui Roma è solo una “piccola frazione”, come viene detto in un episodio. Apparentemente misantropo, sobrio, conservatore. O forse progressista, bugiardo, magari persino ateo. Il giovane Papa è già un gran personaggio che muove la scena attorno a sé – buone anche le performance di Silvio Orlando, e naturalmente Diane Keaton che interpreta la suora-consigliera-madre adottiva del protagonista. Il surrealismo del protagonista provoca momenti genuinamente divertenti, e anche se i due episodi hanno una loro circolarità e chiusura, mettono una voglia selvaggia di vedere il resto. Quand’è che esce? QUANDO?
La sera invece il Festival ci ha curiosamente offerto in Sala Grande la proiezione di un grande classico intramontabile: Un lupo mannaro americano a Londra. Presente in sala John Landis e il momento migliore è stato quando un accreditato italiano vicino a dove ero seduta io si è messo a urlare “Natale non è Natale senza Una poltrona per due!!!”.
È comunque sempre una grande occasione poter vedere questi film su grande schermo, che mette in risalto le scene in soggettiva del lupo e, soprattutto, il magnifico trucco dei personaggi (licantropi e zombie) creato dallo stesso team che lavorò al video Thriller di Michael Jackson. Ancora oggi dà dei punti alla nostra impalpabile computer grafica. Ah, gli anni Ottanta…
Oggi, invece, sono passata al Lato Oscuro della Forza: da fan Pixar consumata è sempre un po’ un’onta per me vedere lungometraggi animati di altre compagnie, ma mi sono venduta temporaneamente al nemico e con una delle tante amiche sono andata a vedere Pets – Vita da animali, distribuito dalla Universal e firmato dagli stessi creatori dei Minions – che infatti sono protagonisti di un divertente corto prima del film.
Il film è molto grazioso, l’ideale per i bambini. Ha un 3D magnifico che mette in risalto la città di New York, completamente ricostruita in computer grafica. Gli animali sono molto teneri e, pur ricercando la gag e la comicità, non sono così opprimenti e invasivi come quelli Dreamworks. Ma. C’è un ma. Non voglio fare quella che è sempre e comunque schierata. Ma non posso tacere.
Il film Pets ha il seguente plot: vi siete mai chiesti che cosa fanno gli animali quando gli umani non ci sono? Il cagnolino Max ha una vita felice con la sua amata padrona Katie, tanti amici tra gli animali domestici del vicinato, con cui passa il tempo mentre la sua amica umana è via. La sua routine, però, viene sconvolta quando Katie porta in casa un nuovo cane, Duke. Più grosso, più prepotente, più forte. I due animali non andranno d’accordo da subito e Max cercherà di sbarazzarsene quando la padrona non c’è. Le sue azioni, però, porteranno sia Duke sia lui stesso a smarrirsi. Si troveranno nelle fogne, in mezzo ad animali abbandonati e inquietanti. Max e Duke dovranno imparare a collaborare per tornare dalla loro padrona, e finiranno per andare d’accordo e decidere di convivere pacificamente. Bene. Non vi suona nessun campanello?
E se vi dico di sostituire gli animali con, che so… i giocattoli? Ecco. La trama mi è parsa una scopiazzatura abbastanza vistosa di Toy Story della Pixar. Il primo lungometraggio di animazione in CGI, mica pizza e fichi. Non capisco come abbiano fatto a non accorgersene: già il paragone con la Pixar penso sia pesante per qualunque altra casa di animazione (a livello anche solo di tecnologia grafica, sono tipo dieci anni indietro), senza aggiungere al carico il mezzo plagio. Niente banane ai Minions per un mese, cosicché possano riflettere sulle loro colpe.
Alla fine, la morale della favola è: i buoni vincono, i cattivi perdono, e, come sempre, la Pixar domina! (semi-cit.)