FilmVenezia 79

Venezia 79 – “L’IMMENSITÀ”: il nervo scoperto del regista

Classificazione: 2 su 5.

Quando mi hanno detto che L’immensità era un film in parte autobiografico, sono caduta dal pero: come tanti, non sapevo niente della riassegnazione di genere cui è andato incontro nella sua giovinezza Emanuele Crialese, il regista. Infatti, durante la Mostra, è stato un vero e proprio coming out: ha narrato come ci sia stato un tempo in cui tutti si rivolgevano a un’Emanuela che però non esisteva davvero.

Questo apre a molte riflessioni su come crediamo di conoscere tutto su certi temi e invece non sappiamo veramente un cazzo di niente. I social – quegli stessi social che commentano la notizia con “e a noi che ce ne frega?”, ma intanto perdono tempo per scrivere qualcosa – spesso sono il luogo virtuale dove la gente sputa sentenze senza aver nemmeno mai parlato con qualcuno che quelle avversità le ha affrontate davvero.

E quindi, sicuramente, L’immensità ha il valore aggiunto di affrontare quel tipo di storia dal punto di vista di qualcuno che l’ha vissuta sulla sua pelle viva.

Crialese mette in scena il piccolo Andrea, nato biologicamente di sesso femminile e inserito in una famiglia degli anni Settanta che non possiede minimamente gli strumenti per accompagnarlo in un qualsivoglia percorso. L’identità di genere di Andrea viene repressa, nascosta agli altri, è motivo di vergogna non solo da parte del classico padre padrone violento, ma meno scontatamente anche da parte della madre, che sulla carta sarebbe un personaggio positivo. Pure Clara, interpretata da Penelope Cruz, reagisce al dramma del figlio/figlia aggirandolo, anziché cercando soluzioni. L’ignoranza rispetto a certi temi è talmente pervasiva, in quell’epoca, che i genitori non prendono una posizione né da una parte né dall’altra: non intraprendono, per fortuna, percorsi di cura, terapie per reindirizzare Andrea a sentirsi Adriana, ma sembrano confidare che sia un “problema” che si risolverà da sé, con la crescita, chiudendo semplicemente gli occhi.

La parte più triste è proprio che, per l’intero film, il solo fatto che Andrea si consideri tale è ritenuto un disturbo caratteriale, una specie di manifestazione di disagio, e non interviene nulla a riscattare questa idea. È facile capire che questo accade proprio perché siamo nel punto di vista del regista, che quelle dinamiche le ha evidentemente subite. Non era tentato di inserire un finale sereno o un’assoluzione laddove non l’ha sperimentata lui per primo.

L'immensità

Penelope Cruz, linguisticamente camaleontica come sempre, torna a recitare in italiano in un ruolo cucito per lei, in cui è credibile e naturale. È una donna di origine spagnola sui quarant’anni sfiorita dall’infelicità ma ancora molto bella, con una spiccata sindrome di Peter Pan che la porta ad andare molto d’accordo con i tre figli. Paradossalmente, il suo problema genitoriale maggiore deriva proprio dal fatto che riesce a rapportarsi loro da pari, ma non da adulta, e quindi di fatto allieta la loro vita, ma non li aiuta concretamente. In una certa misura la sua tristezza e ingenuità mi hanno ricordato la figura materna de La prima cosa bella di Virzì interpretata da Micaela Ramazzotti – anche se Clara è molto meno mina vagante dell’altra, gliene va dato credito.

La prima parte de L’immensità è abbastanza coesa e piacevole, poi il film comincia a sfilacciarsi e a seguire troppe direzioni diverse contemporaneamente, fino a che non si capisce bene dove vada a parare. Anche la malattia della madre è un elemento staccato dal resto che non sembra avere un suo scopo, al di là dell’essere senz’altro uno scampolo biografico autentico. Si ha la sensazione, sulle ultime note, che il film non ci dica qualcosa di preciso, che sia più che altro un insieme di fotografie non legate tra loro in una vera e propria narrazione solida.

Molto carina la giovane storia d’amore che avvicina Andrea non solo alla sua identità di genere, ma a un primo barlume di sessualità, e che forse è l’elemento di trama più lineare di tutto L’immensità: una sorta di cerchio attorno a cui si costruisce il resto, che nasce si sviluppa e si chiude nel tempo del film stesso.

Consigliato? Di sicuro è un film che ha cuore, che tocca un nervo scoperto del regista per cui non deve essere stato facile mettersi così a nudo. Spiace che questa fragilità abbia in un certo qual modo contagiato il film, che è fragile interamente, nella sua struttura. Manca qualcosa che poteva fargli fare uno scatto in più.

Francesca Bulian

Storica dell'arte, insegnante, fangirl, cinefila. Ama i blockbusteroni ma guarda di nascosto i film d'autore (o era il contrario?). Abbonata al festival di Venezia. "Artalia8" su YouTube, in genere adora parlare di tutto ciò che di bello e sopportabile gli esseri umani sono capaci di produrre.
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