Il film Tàr al Lido di Venezia piace molto a tutti coloro che odiano il politicamente corretto degli ultimi anni, quello legato a movimenti come #MeToo, Black Lives Matter e, soprattutto, la famigerata cancel culture. Perché, di base, ha per protagonista un direttore d’orchestra di enorme talento che finisce artisticamente e umanamente screditato quando viene a galla la sua tendenza a fare advance a giovani musiciste, sfruttando la sua posizione e regalando loro favori per il semplice fatto che può farlo.
L’elemento che spariglia le carte e genera un vero e proprio corto circuito è però che il direttore d’orchestra in questione è una donna lesbica. Spunta quindi ben due caselle delle categorie solitamente “protette” dai movimenti woke: essere donna in un ruolo tipicamente maschile ed essere omosessuale.
Questo rende la riflessione che ne scaturisce ancora meno incasellata nei due binari soliti. Lydia Tàr potrebbe facilmente, in Italia, ricordare il caso di Beatrice Venezi, che a Sanremo aveva rifiutato l’epiteto di “direttrice d’orchestra” perché a suo avviso il nome di questa particolare professione è maschile. Il famoso maschile universale che sarebbe tipico a detta di molti delle professioni prestigiose, quali ministro, magistrato, ingegnere, presidente. Dove una donna può ricoprire sì la carica in felici e meritatissime eccezioni, ma è tenuta a sparire dietro di essa. Ma Tàr potrebbe però anche venire da molti accostata in generale a tutte quelle donne che, proprio nella loro scalata professionale, anziché diventare simboli del femminismo lo osteggiano, in una sorta di “sindrome dell’ape regina” (trad.: “io posso, voialtre poverette no”): figure come Margaret Thatcher o altre della destra conservatrice – anche contemporanea e molto vicina a noi.

Tàr è però un personaggio ancora diverso rispetto a questa facile associazione mentale: dotata di un talento enorme e di un enorme amore per l’arte, ritiene di essere al servizio di essa prima che di tutto il resto. Una delle prime conversazioni del film è proprio tra lei e uno studente woke, che rifiuta di suonare Bach perché era un pessimo essere umano. Un dibattito che fa cadere in un immediato ginepraio: la grandezza artistica non dev’essere sicuramente mortificata a causa delle piccolezze del carattere. Tuttavia, è ormai innegabile che la grandezza del passato era anche condizionata dal contesto: tante persone che sarebbero potute essere grandi non se lo sono potute permettere per il solo fatto di non avere il sesso giusto, l’etnia giusta, i genitori giusti o essere nati dalla parte giusta del mondo. Il talento è un dato assoluto, o condizionato dal privilegio? Quello che però fa parteggiare per Tàr durante quel confronto, è che mentre lo studente è rigido nelle sue posizioni, lei pone domande al pubblico e agli studenti.
Cate Blanchett, che interpreta la direttrice/direttore, è immensa come sempre nella voce e nella presenza scenica e il film è letteralmente costruito attorno a lei. Quasi come se lei dirigesse anche noi all’interno della sua storia, questa donna ha un’autorità assoluta su ciò che vedremo. Che è un film lungo, con un ritmo dapprima lento – scene di dialogo che durano anche 10 minuti, in camera fissa – e poi sempre più veloce e serrato. Come in un film che parla di un tossico guarderemmo la sua lenta discesa nell’abisso della dipendenza, così noi assistiamo a un altro genere di ubriacatura, quella del potere: Tàr prende decisioni, alcune salomoniche, altre spietate, altre semplicemente meschine, come fossero note diverse dello stesso spartito. E cade in quella vecchia, brutta trappola che ormai è diventata un cliché, il grande artista che umanamente è una merda perché sente di poterlo essere impunemente. Proprio colui – o colei – in cui le nuove generazioni vanno a cercare saggezza e guida, si dimostra a causa di quello stesso potere una persona piccola, sia moralmente, sia nel senso letterale di regressione all’infanzia.

Ai tempi di Platone, la relazione amorosa e sessuale tra una persona più grande e piena di esperienza e una più giovane che si faceva guidare dalla prima era una delle più alte forme del rapporto che oggi definiremmo romantico e nessuno avrebbe osato metterla in discussione. Era considerata salubre, addirittura. Questa pratica, al contrario, non è mai stata così al banco degli imputati come oggi, proprio per la sensazione che il libero arbitrio sia dubbio: quanto puoi sottrarti alle avance di una persona più grande, più esperta, che ha potere su di te? Anche in presenza di una vera e sincera infatuazione reciproca, c’è davvero equilibrio in un rapporto simile? E quanto è “giusto”?
Il più grande pregio del film rientra proprio in ciò che si è detto di Tàr un paio di paragrafi fa: la pellicola pone domande nello spettatore più che dargli risposte già impacchettate. La donna non è una martire della cancel culture, molte delle conseguenze che subisce sono dovute a sue azioni deliberate, persino leggerezze. Molti lo ritengono già una specie di manifesto anti-politically correct, ma è molto più di questo: è un invito a scavare nei propri schemi mentali. E a rendersi conto di quanto sia un peccato, in un caso e nell’altro, che spesso l’essere umano non sia all’altezza dell’arte che serve.
Sarebbe meglio che, a volte, l’artista sparisse davvero dietro le sue opere.
