
Via dalla pazza folla, ovvero la friendzone nell’Ottocento
Gabriel la ama, lei dice sì a tutti tranne che a lui
Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, nell’amena campagna inglese: il pastore Gabriel Oak (Alan Bates) chiede in moglie l’irrequieta Bathsheba Everdene (Julie Christie, tanti cuori per lei), la quale gli ride in faccia e lo scarica senza pietà. Per un rovescio di fortuna, poco tempo dopo, Gabriel si trova ad elemosinare un lavoro proprio nella masseria di quella infame, venendo pure assunto: adesso può vegliare sulla sua bella e assistere impotente al suo civettare con tutti i fittavoli dei dintorni.

Nella rete della maliarda cadono il ricco William Boldwood (Peter Finch), che è andato in fiamme per un biglietto di San Valentino speditogli per scherzo da Bathsheba e il sergente Frank Troy (Terence Stamp). Il primo è bidonato in tempo zero, il secondo, contro ogni logica, data la sua fama di libertino, sposa la contadina nel giro di mezza giornata. E Gabriel piagnucola in solitudine.

Iniziano i problemi tra i due novelli sposi: Troy si giocherebbe a carte pure sua nonna e spunta fuori una sua ex, Fanny, che decide di lasciare questa valle di lacrime nel dare alla luce il loro bambino. Disperato, Frank inscena un suicidio e a Bathsheba non rimane altro che la bara della sua rivale in casa e Gabriel. Piuttosto che dargli retta, accetta la proposta di matrimonio di Boldwood.
Alla festa di fidanzamento, si presenta, non invitato, Troy Sposo Cadavere, distruggendo le speranze di Boldwood, che si rifà sparandogli. Uno muore e l’altro finisce in carcere, finalmente sul display compare il numero di Gabriel e Bathsheba, rassegnata, lo sposa. Vero amore, no?

Una donna, un titolo
Tratto dal romanzo di Thomas Hardy, Via dalla pazza folla (1967) vanta la regia di John Schlesinger (Un uomo da marciapiede, Il maratoneta) e un cast eccellente, sul quale capeggia incontrastata la mia amata Julie Christie (Il dottor Zivago, Darling).
Merito suo se Bathsheba risulta una tipa simpaticamente complicata e non una stronza di proporzioni epiche: se il personaggio concepito da Hardy è estremamente moderno – è ricca, indipendente, non ha fretta di sposarsi – il suo autocontraddirsi, il civettare con uomini che non le interessano per poi rimanerne fregata e la sua arroganza, ne fanno uscire prepotenti la fragilità.
Bathsheba è femmina al 100%, forte e spesso crudele con chi sa che non la abbandonerà (Gabriel), agnellino sacrificale con Troy che non esiterà a calar la scure sulla nuca. Questo non solo perché alle donne piacciono gli stronzi, come da dogma, ma anche perché l’ignoto è più allettante del conosciuto.
La Christie, lei stessa personalità anticonformista, che mondo vorticoso della Swinging London, si distacca dal canone zuccheroso che il cinema dell’epoca predilige e porta sullo schermo una donna complessa, disillusa e cinica, ma anche ingenua e romantica. Umana, troppo umana.
Alan Bates (Messaggero d’amore, sempre con la Christie), è il bonaccione dall’espressione sorniona che fa da contraltare perfetto ai mefistofelici occhi blu di Terence Stamp, mentre Peter Finch (Quinto potere) è paranoico quanto basta.
Possiamo prendere in giro la pazienza di Gabriel (cosa che ho fatto finora) ma sposarlo è l’attestato di maturità di Bathscheba: soggiogata dal fascino di Troy prima, rassegnata al matrimonio con Boldwood poi, scegliere alla fine il fedele pastore significa che la donna ha saputo rendersi conto di come l’amore possa essere silenzioso e tranquillo, ma non per questo meno forte. Via dalla pazza folla, appunto.
(Oppure, più semplicemente, non le era rimasto nessun altro. Ma questo lo dicono i maligni, non certo io) .

Perché vedere Via dalla pazza folla
Nel lontano 2003, quando mia madre (sì, sempre lei) mi convinse a guardare questo film, avevo solo 13 anni e non m’interrogai troppo sul suo messaggio né sulla psicologia dei personaggi.
All’epoca apprezzai l’intreccio e la fotografia, capace di cogliere la poesia della brughiera e della vita rurale inglese, idilliache nella loro semplice purezza. I prati fioriti e le crinoline fanno però da paravento alla povertà, alle donne perdute, alla pazzia e al vizio, drammi che la moralità vittoriana non accetta e che il film non risparmia allo spettatore – Schlesinger del resto non è tipo da infiorettare la realtà, i suoi lavori più celebri lo dimostrano (la scena della sedia da dentista de Il maratoneta è quanto di più raccapricciante il cinema abbia mai prodotto).
Comunque: se siete delle ragazzine indecise tra due o più pretendenti, guardatelo. Se siete cinici, guardatelo. Se siete sdolcinati come zucchero candito, guardatelo. Se siete relegati al girone della friendzone, vi lascio libertà di scelta, non so che effetti possa avere sulla vostra psiche. No vabbè, guardatelo lo stesso.
Piccola confessione di fine articolo: nel 2015, anche se faccio finta di no, è uscito un remake diretto da Thomas Vinterberg, con Carey Mulligan (Il grande Gatsby, An education) e Matthias Schoenaerts (The Danish Girl). Non ho ancora trovato il coraggio di guardarlo, perché, cinematograficamente parlando, mi rispecchio nel vecchio adagio «chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova». Perdonatemi.