È più o meno da quando ho deciso di condividere con qualcun altro quello che penso del cinema, di quel regista o di quel film, che tento di spiegare in giro la mia passione per Wes Anderson.
No, forse non è proprio passione, non è così consapevole, né volontaria fino in fondo: forse la parola è fascinazione. È una specie di ipnosi, quel tipo di amore che scoppia quando meno te l’aspetti. C’è qualcosa che ti cattura al’inizio, ma non sai bene che cos’è, e il fatto ti innervosisce tanto da farti provare fastidio, quasi repulsione: lasciamola perdere ‘sta ragazza, lasciamolo perdere ‘sto Wes Anderson.
Facile a dirsi: ma quello che succede, in realtà, è che un piccolo tarlo si è insinuato nel tuo cervello, e si fa strada, si fa strada finché non sei in balìa proprio di quella cosa che ti ha catturato al’inizio, e che non sapevi spiegare. Ecco: amare e guardare Wes Anderson (perché siamo di fronte ad uno di quei casi in cui guardare il film di un regista coincide con il guardare IL regista) è come dichiarare finalmente il proprio amore per quella ragazza che non è esattamente una bomba sexy da far voltare i passanti, ma piuttosto la ragazza strana che, per qualche motivo, ti rimane in testa.
Facciamoci un esame di coscienza, quindi, e cerchiamo di capire perché questo eterno enfant prodige è stato, ed è tutt’ora, in grado di stregare milioni di spettatori, fino a creare un fandom tra i più duraturi e compatti.
Innanzi tutto, togliamoci dalla scarpa il sassolino più fastidioso e scomodiamo subito il concetto di autore: il nostro 47enne regista e sceneggiatore di Houston, Texas, è uno dei pochi cineasti mainstream (o divenuti tali) ad aver fatto sua a mani basse la concezione classica, molto nouvelle vague, di autore cinematografico. Senza fare lezioni particolari, in alcuni casi (prendiamo Tarantino, tanto per fare un altro esempio oltre ad Anderson) ancora oggi autore è colui che crea un’estetica, che plasma un immaginario fatto di storie, ma soprattutto di immagini e di parole, restandogli costantemente, quasi religiosamente fedele.
Ed è in questo modo che si dà una prima spiegazione del fatto che Wes Anderson è uno di quei registi riconoscibili al primo istante, sin dal primissimo fotogramma: ripetitivo? Ma neanche per sogno: piuttosto, alla continua ricerca della sua perfezione.
Siamo di fronte, dunque, ad un regista con dei marchi di fabbrica molto spiccati, che lo rendono inconfondibile: le cifre stilistiche sono tante, ma, e qui azzardo un po’, voglio provare a raggrupparle tra loro fino a farle discendere tutte da due caratteristiche, pulsioni, concezioni principali che appartengono a questo ragazzone biondo e sorridente. Prendiamole come due filtri, attraverso i quali sarà forse più facile analizzare e farsi un’idea dell’estetica creata e portata avanti dal regista: prendiamole così, e chiamiamole “la fanciullezza” e “il cinema puro”.
LA FANCIULLEZZA
Max Fisher, protagonista di Rushmore (1998), è un ragazzo di quindici anni alle prese con il college, l’amore e un’infinità di corsi extra-curricolari. Sam Shakusky e Suzy Bishop, in Moonrise Kingdom (2012), sono due dodicenni sfortunati, testardi e affamati di vita che decidono di partire insieme, in maniera rocambolesca e fiabesca, per il “mondo dei grandi”. Nella Repubblica di Zubrowka, ambientazione immaginaria di Grand Budapest Hotel (2014), il vecchio Zero Moustafa, possessore dell’albergo, ripercorre le gesta compiute dal sé stesso bambino insieme all’impareggiabile Monsieur Gustave H.
In mezzo a questi film se ne situano altri, dove la presenza dei bambini, e in generale della giovinezza, sebbene più nascosta, è sempre centrale: i figli e i nipoti di Royal ed Etheline Tenenbaum, che danno vita a quello strepitoso affresco familiare che è The Royal Tenenbaums (2001), sono bambini cresciuti spesso troppo in fretta, ancora alle prese con mamma e papà; allo stesso modo, i tre fratelli Whitman protagonisti di The Darjeeling Limited (2007) intraprendono un viaggio che è anche metafisico, alla ricerca di sé stessi dopo la morte del padre, un viaggio di formazione, che però li porta ugualmente, nella tappa centrale, a far visita alla madre: tre ragazzi-adulti che devono ancora emanciparsi dai genitori.
La presenza così massiccia della giovinezza, interiore ed esteriore, non può che avere delle conseguenze sull’estetica dei film di Anderson, sul suo modo di girare, sul suo modo di costruire ed intendere ogni inquadratura e, in ultima analisi, tutto il cinema.
A cavallo tra ‘800 e ‘900, Giovanni Pascoli ci presenta il suo “Fanciullino”: un bambino dentro ognuno di noi, che coglie aspetti, sfumature e corrispondenze della realtà che sarebbero normalmente impercettibili, essendo noi tutti presi a “diventare adulti”. Nel 2002, in Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni, il maestro Yoda regala a Obi-Wan Kenobi la sua visione dell’infanzia, sotto forma di perla di saggezza: “meravigliosa la mente di bambino è”.
Ecco, diciamo che anche Wes Anderson fa sua questa concezione. Le scenografie dei suoi film, le sue inquadrature, la sua fotografia sono la migliore rappresentazione cinematografica di quella che possiamo definire una “soggettiva bambinesca”: il regista ci fa vedere le cose del mondo con i suoi occhi, che sono quelli di un uomo che è rimasto deliberatamente, allegramente bambino. In questo modo tutto ci sembrerà deliziosamente irreale, calato in un’atmosfera misteriosa e magica che viene continuamente sottolineata e accentuata dall’utilizzo dei colori, dall’artificiosità delle inquadrature e dalla teatralità con cui vengono gestiti i dialoghi, le ambientazioni, gli “oggetti di scena”, persino i costumi degli attori.
È un modo per farci tornare tutti insieme bambini, per poter vedere, anche solo ogni tanto, che il “mondo dei grandi” non è nient’altro che una fiaba affascinante di cui sorridere, quando non ridere sguaiatamente. I colori, le geometrie di esterni e interni sono accentuati fino all’esasperazione, alla saturazione perché così sono visti dai bambini: è tutto meraviglioso, è un mondo da guardare ad occhi sempre spalancati, è un intreccio di storie banali ma avventurose, da romanzo d’appendice per ragazzi da leggere a perdifiato, senza porsi alcun problema.
E, sempre senza porsi il problema, è tutto meravigliosamente, candidamente finto. Il che ci porta al secondo punto, a
IL CINEMA PURO DI ANDERSON
Si diceva dell’eterna fanciullezza attraverso cui guardare il mondo: ora, l’eterna fanciullezza porta con sé quella leggerezza di fronte alle cose che solo i bambini sanno avere. E Wes Anderson la leggerezza ce la comunica attraverso la teatralità del suo cinema.
Una teatralità esasperata, che ci porta a concludere che i film di Anderson sono “tutti lì”, che non c’è niente dietro, o più a fondo, nel senso classico dell’espressione: non c’è un messaggio, non c’è una morale, perché non ce n’è alcun bisogno.
L’opera d’arte non deve necessariamente veicolare delle tematiche per trasmettere una visione del mondo: parlando di questi film, non c’è da scomodare quei paroloni triti come “la dualità dell’essere umano”, “l’alienazione dell’uomo moderno”, “l’eterna lotta tra il bene e il male”; ci sono, ripetiamolo, i colori, le inquadrature, le ambientazioni, l’oggettistica. Tutti esagerati, esasperati, immaginari, falsi: ci sono gli attori che sono sempre gli stessi, come dei feticci (Jason Schwartzmann, Bill Murray, Owen Wilson, Adrien Brody); ci sono i personaggi che, stilizzati e messi in posa come in una fotografia d’epoca, guardano dritto in macchina, come a dire “Ehi, sai che c’è? È tutto finto. Ma davvero questo significa che è meno bello?”.
Forse questa è una cosa che il cinema moderno, assieme alla sua critica, hanno dimenticato: forse siamo tutti troppo impegnati a cercare il realismo, il messaggio profondo, il senso, forse abbiamo disimparato a goderci le immagini.
Wes Anderson da anni prova ad insegnarcelo di nuovo con i suoi film, con il suo cinema fatto di chincaglieria, di personaggi stilizzati e di inquadrature “non vere e belle come in una stampa”.
Questo regista-bambino ci ricorda costantemente che è dall’estetica che può, forse deve, nascere l’etica: e ce lo ricorda probabilmente con un sorriso, mentre beve un coloratissimo succo di mirtillo e melograno seduto ad un tavolo del Bar Luce di Milano, di cui lui stesso ha curato design e architettura.
Ci vediamo lì.