È recentemente arrivato nelle sale americane l’ultimo film di Wes Anderson, Isle of Dogs, uno dei registi più amati e discussi del cinema contemporaneo.
I fan americani già si stracciano le vesti, quelli italiani pure, soprattutto perché dovranno aspettare ancora un mese prima che il film arrivi nelle sale (1 maggio, stando a ciò che afferma IMDB).
Nel frattempo critici di ogni tipo, da autorevoli giornalisti della carta stampata a imbarazzanti dottori in scienza delle merendine come il sottoscritto, si riempiono la bocca di parole a caso, come: inquadrature simmetriche, colori pastello, Bill Murray, per poi vomitarle senza un ordine preciso su lettori innocenti. Di tutte queste parole e frasi, riferite frequentemente al regista texano, quella che ho sentito usare più spesso è: «un regista così unico/particolare che o lo si ama o lo si odia».
«O lo si ama o lo si odia»…
L’avrò letta un miliardo di volte e da suo estimatore non l’ho mai capita.
Esiste davvero gente che odia Wes Anderson? E perché?
Desideroso di togliermi questo dubbio che mi tormenta da anni, ho deciso di andare a stanare questi fantomatici detrattori, ma non disponendo dei fondi necessari per imbastire una caccia intorno al mondo, ho dovuto portare avanti la mia ricerca sul mondo dell’internet. In pochi secondi una marea di risultati mi è appare sullo schermo ed è tutto vero: la gente che odia Wes Anderson esiste davvero!
È un tripudio di pacche sulle spalle e vicendevoli complimenti, tutti si congratulano tra loro e tirano un sospiro di sollievo, felici che anche altri provino il loro stesso disgusto.
La tematica delle critiche è piacevolmente varia, e da questo marasma composto principalmente da rivendicazioni sulla propria intelligenza, ipotesi sgangherate (tuttavia ben accolte) che il regista possa essere autistico e che i suoi fan siano depressi cronici, è comunque possibile estrapolare le principali ragioni per la quale Anderson non sia apprezzato.
Prima di passare al concreto, benché ridicole, non si può sorvolare su un paio di lamentele che è possibile trovare – o l’una o l’altra – nove volte su dieci.
Tantissimi lo rimproverano che i suoi film non fanno ridere. Chi lo rimprovera di questo non è mai qualcuno che aggiunge questo elemento a un’approfondita analisi sul regista, ma si tratta di un commento che si presenta sempre da solo. Ciò significa che chi lo scrive non è qualcuno che un giorno sperava di vedere un bel film, ma qualcuno convinto che avrebbe visto un film comico da far spaccare dalle risate, e per quanto io stesso apprezzi il sottile humor dei film di Anderson, siamo consapevoli che a un amico che ci chiede di indicargli un film spassoso non suggeriremo mai uno dei suoi titoli. La “colpa” di tutto questo ovviamente non è di Anderson ma di chi si occupa della promozione del film e distribuzione del film, il cui dovere è quello di riempire le sale a ogni costo. Si tratta di quelle stesse persone a cui dobbiamo le crisi da reduci del Vietnam ogni qualvolta leggiamo l’infelicissimo titolo Se mi lasci ti cancello.
Non meno ridicola è l’idea, altrettanto diffusa, che i suoi film siano pensati per “conformarsi” al gusto Pop “anticonformista” (l’hipsterismo). Non occorre spendere molte parole al riguardo, lo stile di Anderson è lo stesso da venti anni a oggi, e quella cultura Pop, di cui oggigiorno fa parte, è un mondo che lui stesso ha contribuito (e contribuisce attualmente) a plasmare con il suo cinema, senza mai dare l’impressione di sbattersene anche solo per mezzo secondo di cosa possa piacere agli altri (tanto che molti lo definiscono troppo autoreferenziale) e certamente senza dar peso alle mode del momento (per fortuna). Vi immaginate se una decina di anni fa si fosse fatto prendere dalla mania emo? Brividi…
Ma passiamo al concreto…
Presuntuoso, monotono, vuoto, egocentrico, noioso, stucchevole: sono solo una minima parte degli aggettivi utilizzati per descrivere Anderson da parte di chi non lo apprezza.
Ciò che proprio non va giù a queste persone si può racchiudere in tre punti chiave:
- il fatto che le storie si svolgano in ambienti di classe agiata.
- il senso di irrealtà che trasmette.
- lo sviluppo dei personaggi.
Anderson racconta generalmente le storie di personaggi ricchi e facoltosi, o quantomeno benestanti, e ciò da molti non viene digerito. Per prima cosa, il fatto di non riuscire a svincolarsi da questo elemento mostrerebbe la sua poca originalità e una monotonia di fondo. La storia è sempre la stessa: ricchi annoiati che non hanno mai alcun problema o conflitto se non quelli che si creano da sé. La loro appartenenza a una classe ricca renderebbe inoltre difficile il processo di immedesimazione per lo spettatore, troppo distante da quella realtà.
Proseguendo su questa scia: i colori sgargianti, le scenografie sfarzose, la simmetria, i precisissimi movimenti di macchina, sono tutti fattori che mettono certamente in mostra le incredibili doti tecniche del regista (che non vengono mai messe in discussione), ma tali doti verrebbero sfruttate in maniera spropositata e irrazionale. Nel guardare un film lo spettatore dovrebbe essere catapultato all’interno della storia e, perché ciò avvenga, tutti i componenti di quella storia dovrebbero contribuire a creare un’immagine verosimile della realtà, mentre nei film di Anderson ogni elemento tende a creare l’effetto opposto. Le luci, i colori, la maniacale precisione della macchina da presa, tutto è esageratamente perfetto, artificioso, irreale. Invece che coinvolto lo spettatore viene tenuto a distanza, ricordandogli ogni istante che ciò che ha di fronte è un film, è finto. In questo modo le sue doti non sono altro che messe a servizio di quella che è niente più di un’autocelebrazione narcisistica, il tipico esempio di forma al di sopra della sostanza.
Ho già accennato il fatto che c’è la percezione che Anderson racconti sempre la stessa storia, infatti, se anche l’aspetto tecnico non fosse curato al punto tale da sovrastare tutto il resto, si ritiene che le sceneggiature dei suoi film siano troppo superficiali. La sua capacità di scrivere soggetti e personaggi intriganti non viene messa in dubbio, sembra però un lavoro incompiuto. Sebbene la trama proceda col suo normale sviluppo, ciò non avviene per i suoi personaggi, che alla fine restano esattamente gli stessi. La loro impermeabilità al provare emozioni genuine, al cambiamento, li fa apparire niente più che semplici figurine messe a sostegno di una storia dove tutto sembra scorrere per puro frutto del caso, non determinato dalle volontà, i bisogni, le passioni, come accadrebbe invece nel mondo reale. Il risultato, come al solito, è che diventa pressoché impossibile per lo spettatore manifestare a sua volta empatia nei confronti dei personaggi che, per via di quanto detto, risultano sgradevoli e facciano man mano perdere interesse verso il film.
Ora, considerando che questa è l’estrapolazione di tutta una serie di critiche e commenti scritti in maniera barbara e offensiva, in perfetta linea coi commenti standard postati sotto un qualsiasi articolo del vostro giornale online preferito, capite bene che il commentare in “caps lock”, sfogando tutta la rabbia e la frustrazione, con la conseguenza inevitabile di perdere l’ultimo briciolo di dignità, sia stata una tentazione forte. Ma visto il fatto che il MacGuffin, per pietà, mi offre questo spazio per scaricare la suddetta rabbia e frustrazione, mi limiterò a riportarvi qui la mia opinione nella speranza di fare un po’ di chiarezza e preservare quel briciolo di dignità ancora per un po’.
Per comprendere le scelte di Anderson occorre capire di cosa parlino i suoi film, che in buona parte sono storie di auto-realizzazione e auto-accettazione.
Ad Anderson non interessa preoccuparsi dei bisogni primari, come: i bisogni fisiologici, il bisogno di sicurezza, i bisogni sociali o di stima (tutti bisogni di facile lettura), piuttosto è interessato a quei bisogni secondari come quelli cognitivi, estetici e, appunto, di auto-realizzazione. La scelta di rappresentare l’upper-class non è quindi dovuto a scarsa originalità, ma semplicemente la naturale conseguenza della scelta dei temi. Il senso di disorientamento è probabilmente dovuto dall’assenza di quei bisogni basilari e non dall’ambiente ricco in sé.
La sceneggiatura non è affatto superficiale, tanto i personaggi quanto la storia si evolvono efficacemente durante l’arco del film, anche se non in maniera evidente. Non ci sono obbiettivi materiali, grandi traguardi o stravolgimenti, tutti questi fattori esterni sono solo dei veicoli. Ogni film è un vero e proprio viaggio dove le emozioni sono l’unico vero protagonista, anche se è comprensibile come mai i suoi film siano criticati per la loro scarsa capacità di comunicare empatia.
Generalmente è l’attore ad avere il ruolo di comunicare allo spettatore le sue emozioni, tra pianti disperati, risate, sguardi, ecc., Anderson spoglia l’attore di questo ruolo e lo mette in pratica attraverso tutti gli altri elementi della messa in scena. Non fraintendiamoci: luci, colori, costumi, scenografie, inquadrature e così via, sono stati utilizzati per amplificare le emozioni costruite dagli attori e come estensioni della loro personalità fin dagli inizi, basti pensare al ruolo chiave che hanno avuto nel secolo scorso con l’Espressionismo. Tuttavia, nel cinema di Anderson questi elementi non ricoprono più un ruolo secondario ma sono i veri protagonisti (vero tratto distintivo della sua cifra stilistica). Egli mette tutti gli elementi davanti ai nostri occhi e lentamente ci guida: i lunghi carrelli, i ralenti, i primi piani dall’alto nei momenti di presa di coscienza, creano volutamente situazioni ambivalenti che costringono lo spettatore ad un costante sforzo interpretativo che ha come fine quello di mantenere sempre coinvolto lo spettatore. Un lavoro di perfetta sinergia dove niente è lasciato al caso.
Come detto in precedenza questa è solo la mia opinione, non ho la presunzione di dirvi che questa è la verità su Wes Anderson, anzi, in tutta sincerità pur restando convinto della mie idee, trovo comprensibili alcune delle critiche che gli vengono rivolte. Questo confronto mi è stato molto utile per capire meglio il cinema di Anderson e non capisco come mai ho aspettato così a lungo per fare questa ricerca. Forse spesso non ci fidiamo a mettere in discussione le nostre idee, consapevoli della loro fragilità, o forse bolliamo aprioristicamente come sciocchezze idee opposte alle nostre perché effettivamente convinti di essere nel giusto, finendo col confrontarci solo con chi la pensa esattamente come noi. Quest’atteggiamento ha contribuito a creare l’idea che sia il gradimento o il disprezzo di una persona verso un’opera a stabilire se la suddetta persona sia competente o meno, e degna delle nostre attenzioni, quando invece tale aspetto è decisamente secondario.
Quello che l’arte ci richiede non è di apprezzarla o meno, ma di tentare di capirla, senza trascurare nessuna risorsa. Fare questo non è assolutamente facile e talvolta può rappresentare un grande fatica, indubbiamente alcuni ameranno e altri odieranno farlo, ma è dovere tentare.