
Wonder Woman 1984: il trionfo dell’ingenuità e il fallimento del femminismo
Sopravvalutato o no, Wonder Woman resta uno dei punti più alti del DCEU. Malgrado un finale da B-movie da quattro soldi, per la maggior parte della sua durata era un cinecomic coinvolgente ed emozionante, capace di bilanciare alla perfezione la serietà tipica di Zack Snyder (produttore e autore del soggetto) con il divertimento in stile Marvel da sempre invocato dai critici (altro che Justice League!).
Senza contare che riusciva a trattare il femminismo senza ricorrere alla becera retorica o dipingendo tutti gli uomini come stronzi, bensì lasciando che fossero le azioni della protagonista a parlare. Speravo che il seguito proseguisse su questa strada. Anzi, alla luce della maggior libertà creativa concessa alla regista Patty Jenkins, confidavo che fosse in grado di migliorare la formula. Invece devo ammettere che Wonder Woman 1984 è molto inferiore al primo film.

Ambientata nell’anno indicato dal titolo, la pellicola segue ancora una volta le avventure di Diana Prince (Gal Gadot) che, lasciatasi alle spalle l’esperienza della Prima guerra mondiale, ora lavora come antropologa allo Smithsonian di Washington. Non rinuncia però alla vita da supereroina, agendo nell’ombra per sventare i crimini. Le cose cambiano quando fa la sua comparsa una pietra magica in grado di esaudire i desideri.
Diana involontariamente fa tornare in vita il suo amore perduto Steve Trevor (Chris Pine). Al contempo la mite e indifesa collega Barbara Minerva (Kristen Wiig), desiderando di essere come lei, ne acquista per sbaglio i poteri. Infine, l’industriale sul lastrico Max Lord (Pedro Pascal) sfrutta il manufatto per diventare egli stesso un “genio della lampada” e ottenere sempre più potere. Ma tutto ha un costo e, con l’aumentare dei desideri esauditi, il mondo precipita sempre più nel caos.

A onor del vero, Wonder Woman 1984 non è terribile come si legge in giro. È divertente, si lascia guardare, ha un’ottima colonna sonora (Hans Zimmer non delude mai) e non è privo di momenti davvero ben riusciti. Ne cito giusto due: il prologo ambientato a Themyscira con la piccola Diana (interpretata dalla giovane e talentuosa Lily Aspell) e la meravigliosa scena dei fuochi d’artificio.

Inoltre, cosa più unica che rara per un blockbuster hollywoodiano, non ha paura di lanciare una spietata critica al capitalismo sfrenato e al Sogno Americano. Alla cultura del “voglio-tutto-e-subito”, il film contrappone l’idea che l’unico modo giusto di raggiungere i propri obiettivi è attraverso il duro lavoro e il rifiuto delle scorciatoie.
Sarebbe anche un messaggio importante, peccato che Wonder Woman 1984 sia eccessivamente ingenuo ed infantile, nell’esecuzione come nei contenuti. Sul serio, stiamo parlando di un lungometraggio in cui il mondo viene salvato letteralmente dalla forza dell’ammmore. Immagino che l’unico motivo che ha spinto la Jenkins ad ambientare le vicende negli anni ’80 sia stato il poter giustificare la leggerezza e la superficialità della trama come un “omaggio” al tono sognante di quel decennio. Scusa Patty, ma il trucco non funziona.

Per di più, il film è parecchio inconsistente sul piano narrativo. Molte cose non hanno senso, altre sono poco chiare e alcuni dettagli arrivano a tanto così dallo stravolgere la timeline del DCEU. Se Diana può volare, rendere gli oggetti invisibili e indossare un’armatura dorata, perché non l’abbiamo mai vista fare una sola di queste azioni nei capitoli precedenti? Certo, la canonicità della pellicola viene salvata da piccole scappatoie (ad esempio, Diana che rompe le telecamere di sorveglianza del centro commerciale, così sappiamo perché nessuno la conosce in Batman v Superman), ma siamo comunque al limite.

La faccenda stessa del ritorno di Steve Trevor solleva molti più quesiti del previsto. (SPOILER) Se la Pietra dei Sogni può far apparire le cose dal nulla (verso la fine la vediamo materializzare delle basi nucleari), perché lo spirito dell’ex pilota è costretto a “possedere” un tizio qualunque? E la coscienza di quest’ultimo dove va a finire? Non è una specie di stupro se Diana e Steve “usano” il corpo di uno sconosciuto per fare sesso? Le implicazioni morali di una tale circostanza non sono da sottovalutare e avrebbero potuto costituire un importante spunto di riflessione. Invece a nessuno dei protagonisti pare interessare. Da qui la domanda: c’era davvero bisogno di sfruttare il topos dello “scambio di corpi”? (FINE SPOILER)
Il totale disinteresse nei confronti di una possibile violenza sessuale su un uomo suona oltretutto ipocrita per un film così sfacciatamente dalla parte delle donne. Avete presente quel che ho detto sul primo Wonder Woman e il femminismo? Ebbene, nel sequel torniamo ad una visione estremista del movimento, dove tutte le donne sono buone (anche quando passano al nemico) e tutti gli uomini dei maniaci pervertiti e violenti. Perlomeno in Birds of Prey il comportamento negativo dei maschi era motivato dal fatto che questi ultimi erano criminali. Qui chiunque abbia un pene è un potenziale stupratore, però se una donna effettivamente stupra qualcuno il problema non sussiste.

Moralità a parte, un’altra critica che mi sento in dovere di avanzare è che, per essere un cinecomic da 200 milioni di dollari, Wonder Woman 1984 è parecchio carente sul fronte delle scene d’azione. Ciò riguarda sia la qualità che la quantità (ce ne saranno a malapena 2 o 3). Un aspetto, quest’ultimo, non di poco conto, specie se lo rapportiamo alla durata del film: oltre 150 minuti, che purtroppo si sentono tutti.
Gli interpreti almeno si salvano. Gal Gadot è sempre splendida, seppur meno grintosa che in passato. Chris Pine è simpaticissimo e continua a condividere un’ottima chimica con la sua partner cinematografica. A Kristen Wiig tocca lo stereotipato ruolo della nerd che diventa cattiva, reso ancora più ingrato da una trasformazione finale in Cheetah resa con una CGI discutibile (anche se siamo lontani dagli incubi di Cats); nel complesso però l’attrice se la cava discretamente.

In ogni caso è Pedro Pascal la vera rivelazione. Con il suo continuo gigioneggiare e un tormentone diventato già cult (“La vita è bella, ma può essere migliore!”), la star di The Mandalorian ruba facilmente la scena a tutti e dà corpo a un istrionico mix tra Gordon Gekko e il Lex Luthor di Gene Hackman. Potrà non essere il villain più riuscito del DCEU, ma se non altro è il più spassoso.

Spiace solo che attori tanto bravi siano sprecati in un film che non ha saputo valorizzarli. Un cinecomic sottotono e a tratti cringe, che sta al primo Wonder Woman come il Superman di Richard Lester sta a quello di Donner. Non credo sia un caso che le prime scene ambientate nel 1984, esattamente come l’opening di Superman III, siano una compilation di gag alla Benny Hill Show.