Morire cinematograficamente, intendiamoci: non si augura la morte a nessuno, figuriamoci ad un nume tutelare come Woody Allen. Tuttavia, è opinione diffusa che la cosa più divertente da fare con i numi tutelari sia, certe volte, sforzarsi di smontarli un pezzetto alla volta, soprattutto quando c’è in giro abbondanza di motivi per farlo.
Si dà il caso che Allen corrisponda all’identikit in una maniera pericolosamente perfetta: tanto che si potrebbe addirittura definire il regista (e intellettuale, e scrittore, e artista a tutto tondo) statunitense come una divinità che si è spodestata da sola. Ci ha provato tanto che alla fine ci è riuscito, a rovinarsi.
Il tempo scaduto di Woody Allen
C’è una battuta di Pulp Fiction che nell’economia di quella gigantesca sceneggiatura, forse, passa un po’ inosservata, ma che afferma una grande e disarmante verità della vita.
Marsellus Wallace si sta mettendo d’accordo per truccare l’incontro di boxe con il pugile Butch Coolidge, e spiega all’interlocutore quello che andrà a guadagnare. “Quanti combattimenti pensi di poter ancora affrontare? Due? E poi? Pensi che tutto invecchi come il vino? Beh, se intendi che diventa aceto è così, se intendi che migliora con l’età non è così”.
Ora: lo stesso discorso può essere fatto per Woody Allen e per i suoi film.
Parliamo di un regista che ha fatto della battuta, sferzante ed intelligente in modo fulminante, il suo assoluto marchio di fabbrica: è riuscito a immettere nel mondo e nella retorica della comicità (anche demenziale) ciò che alla comicità (anche demenziale) mancava, ovvero la capacità di dire qualcosa, di affermare la propria posizione sulle cose della vita, di esprimere, in modo leggero ma mai scontato, la propria visione del mondo. Allen, film dopo film, ci ha fatti entrare a casa sua, nel suo mondo, che coincide in modo meraviglioso con una enorme “stanza dei giochi intelligenti”.
E poi, cosa è successo? Niente di che, in realtà: l’artista è soltanto diventato vecchio. Il fatto grave è che, prima di invecchiare, l’artista aveva diffuso intorno a sé un’aura di genialità così grande, che oggi è quasi sacrilego, blasfemo osar dire che è non è migliorato come il vino, ma si è trasformato in aceto.
E’ triste, nessuno è qui a negarlo: ma è quello che è accaduto, né più né meno.
I motivi per cui Woody Allen, invecchiando, ha perso il suo smalto, sono vari e variegati, ma il primo è intrinseco al suo modo di fare cinema, di scrivere una sceneggiatura: la sua comicità arguta, dissacrante e fulminea, epigrammatica, è invecchiata con lui. E non poteva che invecchiare male, perché è una comicità che ha sempre viaggiato a cento all’ora, sulla cresta dell’onda. Oggi risulta datata perché è datata, ci appare rallentata e annebbiata perché è rallentata e annebbiata: e come diamine potrebbe essere altrimenti, se il suo autore ha superato gli ottant’anni?
Dicono che invecchiando si torna progressivamente bambini, e hanno ragione: torni ad essere testardo e capriccioso, vuoi fare quello che vuoi tu quando vuoi tu, e non vuoi sentire ragioni contrarie. Sei ostinato, hai perso il contatto con il tempo presente, e non puoi fare altro che rifugiarti in una retorica che è sempre la stessa, su cui da sempre si scherza: “ai miei tempi la scuola era un’altra cosa”, “quando ero giovane i treni arrivavano in orario”, e chi più ne ha più ne metta. Se a questo si aggiungono i capricci e le idiosincrasie tipiche dell’artista-primadonna, si ha un perfetto Portrait of the artist as an old man, si ha un perfetto ritratto di Woody Allen, da una quindicina d’anni a questa parte.
Questo ritratto alleniano trova corrispondenze puntuali in ogni aspetto del suo cinema, senza esclusioni.
Woody Allen e i problemi: sceneggiatura e recitazione
Della scrittura si è già detto: una sceneggiatura densa di battute e frasi geniali, si è trasformata progressivamente in un disarmante e verbosissimo fiume di parole. Come può essere, altrimenti, che ancora oggi film come Manhattan o Annie Hall risultino leggeri e gradevolissimi (dal punto di vista della sceneggiatura in questo caso), rispetto a commedie decisamente anche meno impegnate, come Scoop o il più recente Magic in the Moonlight?
Altra questione spinosa è quella della recitazione: come molti autori cinematografici, anche Woody Allen ha avuto, nel tempo, le sue manie e le sue muse (una su tutte, è quasi banale dirlo: Diane Keaton). E va bene, Tarantino ha Samuel L. Jackson, Wes Anderson ha Bill Murray, Hitchcock aveva Ingrid Bergman, dunque non possiamo dire niente nemmeno ad Allen.
Il problema, ancora una volta, è lo stesso regista, questa volta nelle vesti di interprete, spesso principale, dei suoi stessi film: da Play it again, Sam fino a Hollywood Ending ed Anything Else, Allen ha creato da zero una vera e propria maniera di recitazione. Quei balbettii impacciati, quella lingua sciolta e nevrotica nel dire sempre la sua con fare apparentemente timido, quel fisico gracilino e quel modo compulsivo di gesticolare sono sempre stati soltanto suoi. Ci siamo abituati quasi subito a questo modo di recitare, ci abbiamo fatto il callo, ce ne siamo innamorati, lo abbiamo esplorato in tutti i suoi angoli bui e in ogni suo significato: è per questo (oltre che naturalmente perché chi lo mette in pratica non ha più la stessa età!) che oggi ci risulta così pesante, fuori luogo. Quasi anacronistico: comprensibile, se dalle gesta tragicomiche di Sam Felix o di Fielding Mellish (protagonis
ta di Bananas) sono passati tra i quaranta ed i quarantacinque anni.
Ma ripetersi pedissequamente ad Allen non bastava: da perfetto capriccioso, ha istruito gli altri attori maschi dei suoi film a recitare come lui. Esattamente come lui: basti pensare ad Owen Wilson in Midnight in Paris, a Jesse Eisenberg in To Rome With Love, a Colin Firth nel già citato Magic in the Moonlight. Se Eisenberg fallisce miseramente (come tutto il film che interpreta, del resto: un abominio di cui non si deve parlare oltre), Wilson e Firth non spiccano certo, nelle rispettive parti, per le loro doti attoriali, che tuttavia posseggono. Siamo di fronte al reato di “appiattimento dell’attore”, di qualsiasi attore, per “fargli fare” Woody Allen.
Woody Allen e i problemi: le storie
Un accenno sui soggetti dei film più recenti. Allen non ha mai avuto bisogno di orpelli particolarmente complessi per sondare le profondità dell’anima umana con le sue storie. Ha sempre parlato, in modo semplice e complesso, dell’uomo, cominciando dalla cosa che ha sempre conosciuto meglio, ossia sé stesso.
Il problema, anche in questo caso, è che siamo di fronte ad un narratore che non ha mai cambiato di una virgola non solo il suo modo di narrare, ma le cose che narra. Come possiamo, nel 2016, continuare ad accettare commedie che parlano di psicanalisi, del conflitto tra apparenza e realtà, delle debolezze più banali degli esseri umani (come quelle del cuore)? Dopo tutte quelle che abbiamo visto e letto (dall’antica Roma ad oggi!), quante commedie degli equivoci pensa di girare ancora Woody Allen? E invece abbiamo Magic in the Moonlight e Scoop, e Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni e Melinda e Melinda.
Ah, ma nessuno abbia timore! Questi sono solo “filmetti” (per usare la distinzione, fatta dallo stesso Allen, tra “film” e “filmetti”): i “film” sono tutta un’altra faccenda!
È davvero così? Che dire di Sogni e delitti e di Blue Jasmine? Il primo dei due è un film completamente inutile (oltre che brutto, ma questo non importa più di tanto), essendo già stato esplorato l’universo del Noir da film nettamente superiori (veri “film”) come Crimini e misfatti e Match Point; un film capace di far fare brutta figura a Colin Farrell ed Ewan McGregor.
Il secondo è una meditazione tutta interiore, intima (e come tale, capace di far provare “vergogna” allo spettatore) sulla morte, che Allen teme sopra ogni altra cosa: il che andrebbe anche bene, così come andrebbe bene la magistrale Cate Blanchett, se non fosse che la storia è calata in un’ambientazione che più anacronistica non si può; l’atmosfera, infatti, è quella di un insanabile contrasto tra “alta” e “bassa” società: ci sono i ricchi, gli aristocratici, e poi ci sono i proletari, che girano ancora con la salopette, le bretelle e i copricapo da imbianchini. La società liquida di oggi, il trionfo odierno del “medio”, non appare in alcun modo: e anche qui Allen si dimostra senile, per il semplice fatto che è rimasto indietro, non è al passo coi tempi.
Le eccezioni alla regola
Le eccezioni che confermano la regola ci sono, e sono tre: si tratta, in ordine di uscita, di Match Point, di Basta che funzioni e di Midnight in Paris. Se il primo riesce, in mezzo a molti fallimenti, a presentarsi come “film”, quindi come opera “seria”, andando a ripescare la tradizione del noir e del thriller che però vuole comunicare un’idea sul mondo (e non svelo altro: guardare per credere!), e riesce a dare ad Allen un nuova musa (Scarlett Johansson, presente anche in Scoop e in Vicky Cristina Barcelona), gli altri due costituiscono due piacevoli unicum nella bassezza delle commedie dell’ultimo Woody Allen, e lo sono per due motivi differenti.
In Basta che funzioni spicca il protagonista, interpretato da Larry David. Ciò che conta è che l’attore ha ricevuto i dettami del regista, ma non si limita, in questo caso, a “rifare” Woody Allen in maniera piatta; anzi, conferisce al suo personaggio proprio ciò che manca alle ultime incarnazioni cinematografiche del personaggio di Allen: l’essere un anziano un po’ burbero, scostante e asociale, ma sotto sotto con un cuore d’oro. La forza di Midnight in Paris sta, invece, nel fatto che si tratta di una storia completamente irreale,
dall’inizio alla fine: la sospensione dell’incredulità, del tutto necessaria per approcciare il film, rende digeribili tutti gli stereotipi sulla città di Parigi (e la notte, e la pioggia, e la Tour Eiffel, eccetera) proprio perché lì cala in un’atmosfera fiabesca. In pratica: non c’è problema, perché non può essere vero. Quelle inquadrature, quei campi lunghi, quella fotografia, che appaiono datati ed anacronistici in quasi ogni altro film alleniano degli anni Duemila, qui non disturbano, proprio perché Woody Allen ci sta raccontando un’altra delle sue favole (un po’ come in La rosa purpurea del Cairo).
L’ostinazione di Allen, il suo aggrapparsi ad un passato di fasti meritatissimi, appare chiara, più che da ogni altra cosa, dal suo “industrialismo” cinematografico: si fa un film all’anno, senza eccezioni.
Chi può dire cosa succederebbe se il nostro Woody decidesse di transigere a questa regola ferrea, per rifiatare, per dare più tempo alla sua ispirazione e al suo genio, che sappiamo esserci?
Non possiamo saperlo, ma probabilmente avremmo, anche oggi, dei veri film di Woody Allen.