A cosa attribuisci la tua longevità come regista? chiede il giornalista Eric Lax all’amico Woody Allen. In effetti, lo stesso Allen non sa spiegarselo bene: non ha mai realizzato film commerciali, non ha mai assicurato un grande ritorno economico ai suoi produttori ed è molto più apprezzato in Europa che in America, pur essendo di Brooklyn. Nonostante ciò, gli è sempre stata garantita la massima libertà artistica.
Nato e cresciuto a New York, è insofferente verso l’istituzione scolastica e lo studio. Passa i pomeriggi dopo scuola a scrivere barzellette, che invia al New York Post. Fattosi notare, ottiene il suo primo impiego come scrittore umoristico. Far ridere la gente è la cosa che gli viene meglio e nel giro di pochi anni si ritrova a essere autore di punta di programmi televisivi, portando avanti al contempo l’attività da cabarettista. L’approdo al cinema è solamente questione di tempo: nel 1965 scrive e recita in Ciao Pussycat. Per lui sarà un’esperienza totalmente negativa, produttori e regista manipolano e stravolgono la sua sceneggiatura. Da allora in avanti Allen vorrà avere il pieno controllo del suo materiale.
Fase 1
La sterminata filmografia di Allen può essere teoricamente suddivisa in tre fasi. I suoi primi film infatti non sono altro che delle semplici commedie leggere: trama ridotta all’osso al fine di perseguire il divertimento dello spettatore esclusivamente attraverso l’accumulo di gag. Sono inclusi in questa fase tutti i film a partire dalla sua prima regia, Prendi i soldi e scappa (1969), fino a Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972).
Particolarmente rappresentativo di questa fase è quest’ultimo. Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) infatti non è altro che la trasposizione di un manuale educativo. E come il manuale stesso, è diviso in diversi capitoli, ognuno atto a rispondere ad una domanda diversa. Nessuna trama, giusto sette episodi nei quali il regista si diverte ad esorcizzare alcuni tabù della società di inizio anni ’70. L’unico fil rouge è, ovviamente, il sesso.

Il film è una raccolta di episodi più o meno divertenti e non vi è alcuna volontà da parte del regista che non sia quella di cercare la risata dello spettatore. Per sopravvivere, una commedia ha bisogno di risate. Non si scappa affermerà Allen. Eppure, già in uno degli episodi del film, quello italiano, è percepibile la volontà di seguire strade nuove, il seme della fase successiva. Nel suo personale omaggio al cinema italiano, si inizia ad intravedere un maggiore interesse per l’aspetto cinematografico delle sue opere.

Dopo i primi successi, dovuti più alla comicità del suo personaggio pubblico che alla qualità dei film in sé, Allen inizia lentamente a cambiare registro. Da commedie al limite del demenziale, il giovane autore passa a film pur sempre leggeri, ma con trame più elaborate e non sottomesse alla ricerca estenuante della risata. Già da Il dormiglione (1973) ciò è riscontrabile, ma la vera maturità cinematografica di Woody Allen ha inizio con Io e Annie (1977). Abbandonati completamente i toni surreali delle prime opere, Allen realizza una commedia pessimistica, dove a primeggiare è l’inevitabile miseria dell’uomo e l’ineffabilità di un piacere costante e duraturo.
Fase 2
Non c’è dubbio che la commedia abbia meno valore rispetto a un’opera drammatica. Ha un impatto minore. Quando la commedia affronta un problema, lo mette alla berlina ma lo lascia irrisolto. Il dramma, viceversa, lo scava in un modo più soddisfacente dal punto di vista emotivo. – Woody Allen
Allen ha sempre voluto realizzare dei drammi. Però è un comico di successo e sono state le commedie ad aprirgli le porte del cinema. La sua popolarità cresce un film dopo l’altro e Io e Annie trionfa agli Oscar. Proprio questa consacrazione convincerà i produttori a lasciargli carta bianca per il film successivo.

Allen, da sempre ammiratore del cinema europeo, si lascia ispirare soprattutto da Bergman e gira Interiors (1978). Il film è estremamente lento, caratterizzato da atmosfere fredde, dalla completa assenza di musiche e da lunghe inquadrature statiche, dette master shot. L’azione è ridotta al minimo e il fiume di dialoghi porta lentamente in superficie l’ipocrisia e il falso moralismo della famiglia borghese. Un film difficile da digerire per il pubblico di Allen, che si sente tradito. Nessuno si aspettava un cambio di registro così drastico, dalle commedie ad un dramma asettico ed estremamente pessimista.
Il primo vero flop della carriera di Woody Allen è però seguito da quello che ad oggi è considerato uno dei suoi capolavori: Manhattan (1979). Il regista torna alle atmosfere di Io e Annie, ma decide di girare il suo grande omaggio alla Grande Mela in bianco e nero. Volevamo lavorare in bianco e nero perché faceva molto Manhattan, afferma Allen, che riesce a realizzare un’opera intima e romantica nonostante l’utilizzo del formato widescreen, che gli assicura molte inquadrature imponenti e suggestive della città. Manhattan stessa è un personaggio del film, che respira e influenza le vite di tutti. Ad essere mostrata è la New York dei sogni, quella creata da Hollywood e che non esiste, quella del giro romantico di mezzanotte in calesse a Central Park. L’immaginazione come unica via di fuga da una realtà opprimente sarà infatti un tema ricorrente nella filmografia dell’autore, come per esempio ne La rosa purpurea del Cairo, dove una donna oppressa dal marito alcolizzato ha una storia d’amore con un personaggio di un film, uscito fuori dal grande schermo.

Manhattan può essere considerato a tutti gli effetti il manifesto del cinema alleniano, almeno in questa sua seconda fase. Dopo il passo falso di Interiors, l’autore si attiene quasi sempre alla formula della commedia, senza rinunciare però ad infarcire i suoi dialoghi di massime filosofiche riguardanti la sua visione del mondo. Così se ne La rosa purpurea del Cairo (1985) la condanna dell’essere umano sta nell’essere costretti a preferire la realtà alla fantasia, seppure la prima è sempre meno appagante, in Crimini e misfatti (1989) Allen sentenzia che al mondo non esiste Dio e non vi è sicurezza di alcuna giustizia.
Sono fermamente convinto che se da morto ti intitolano una strada, questo non servirà a migliorare il tuo metabolismo… ho visto quello che è successo a Rembrandt, Platone e altri bravi ragazzi – Woody Allen
La carriera di Woody Allen è priva di veri successi al botteghino, nonostante i suoi film siano apprezzati. Eppure ci si domanda come abbia potuto girare un film all’anno per quarant’anni in un’industria, nella quale si è sempre tenuto ai margini, che fagocita nomi nuovi continuamente. Se la volontà di Allen di passare da un progetto all’altro, senza una minima pausa, è spiegata da egli stesso come una forma di negazione della morte, non è tanto facile spiegare come sia riuscito a mantenere fedele una discreta fetta di pubblico pur affrontando temi non consoni al consumo di massa.
Fase 3
Allen comunque non è mai soddisfatto. Ho sempre ambìto a essere un regista serio, ma nessuno dei miei film seri ha mai riscosso un grande successo di pubblico. Il punto di svolta è Match Point (2005). L’operazione è la stessa di Interiors, ma questa volta riuscita: spogliatosi di ogni residuo di ironia e leggerezza, il film è la summa del pessimismo del suo autore. Come in Crimini e misfatti, l’assenza di Dio nella vita dell’uomo è una tragedia per Allen, in quanto presuppone che l’universo sia privo di significato e che l’unico limite alle azioni malvagie sia la morale, elemento decisamente soggettivo e casuale. E proprio la casualità della vita e l’inaffidabilità della giustizia sono gli altri temi attorno a cui gira il film e, a ben vedere, l’intera opera di Woody Allen.

Dobbiamo prendere atto del fatto che l’universo è privo di Dio, che la vita è priva di significato, è spesso un’esperienza terribile, orrenda, senza alcuna speranza – Woody Allen
Dopo Match Point, che può essere considerato la sua opera testamentaria, Allen continua a dividersi tra commedie ciniche sulla casualità della vita, come Basta che funzioni (2009) o Blue Jasmine (2013), e film in cui racconta un lato inedito di sé, sognante e nostalgico come Owen Wilson in Midnight in Paris (2011).
A parte pochi casi, i film di Woody Allen continuano ad essere oggetto di culto di una minoranza del pubblico mainstream e probabilmente una risposta razionale al come sia riuscito a mantenere tanta libertà artistica in un mondo, quello del cinema, dove l’arte è soffocata dal business non esiste. Quel che sappiamo è che Woody Allen è un artista unico, capace di mettere insieme Bergman e Groucho Marx, dall’abilità rara di dosare la profondità dei temi con la leggerezza dei toni.
Un talento di cui non ci si può voler privare.