
Zelig – Il Woody Allen non considerato
In vista dell’uscita di Café Society, l’ultimo film di Woody Allen, vi proponiamo un suo vecchio titolo, sconosciuto ai più.
Un’analisi superficiale della filmografia di Woody Allen potrebbe portare alla conclusione che il regista newyorkese abbia vissuto solo di commedie leggere o drammi più intimisti, tutti comunque fondati sulle sue tipiche tematiche: la nevrosi, conseguenza di una completa sfiducia nella vita, in quanto la non esistenza di un Dio e quindi di un senso del tutto non la renderebbe degna di essere vissuta.
La seconda parte di quest’affermazione è sicuramente appropriata per presentare la vastissima opera di Allen, ma di certo non si può dire che egli si sia adagiato sugli allori sfornando esclusivamente i suoi generi di film che facevano più presa sul pubblico. Come avevo già accennato nel focus dedicatogli, l’autore originario di Brooklyn non ha mai desistito dallo sperimentare nuove forme narrative, soprattutto tra gli anni ’70 e 80’.
Zelig è sicuramente uno dei massimi esponenti del suo filone “sperimentale”. Allen riprende la struttura narrativa del suo primo film, Prendi i soldi e scappa, ovvero quella di un falso documentario, per raccontare la vita di Leonard Zelig, uomo affetto da una grave malattia che lo porta a trasformarsi letteralmente in tutte le persone che incontra. Una sorta di camaleonte umano. Il film ne racconta la vita con false immagini di repertorio ed interviste. La dottoressa Fletcher (Mia Farrow) sarà l’unica a credere in una sua possibile guarigione e finirà per innamorarsene.

Come si può evincere dalla trama, il film è surreale e grottesco, con alcune sporadiche incursioni nel demenziale, ma a differenza di Prendi i soldi e scappa, e di praticamente tutta la prima fase dell’autore, l’opera non vive solo grazie all’accumulo di gag, comunque presenti in grande quantità. Non è infatti di minor importanza l’interpretazione metacinematografica che può esserle attribuita.
L’epopea di Zelig può essere vista, infatti, come la fulminea carriera di un qualsiasi regista e/o attore: quando un giorno si è sulla bocca di tutti e il giorno dopo non si è più nulla, Zelig si trasforma per essere accettato dalla massa. Gli anni ’80 per Allen furono un periodo decisivo, dopo i grandi successi (Io e Annie e Manhattan) bisognava chiedersi quale strada seguire: andare avanti di testa propria o assecondare il momentaneo successo di pubblico? Allen non ha mai avuto una grande opinione riguardo al pubblico in quanto massa pagante (basti guardare il suo Stardust Memories) e non stupisce quindi che il trasformismo non porti nessuna forma di compiacimento a Zelig, che troverà la serenità solo attraverso l’amore. Il cerchio si chiude quindi se si pensa che l’amore è incarnato da Mia Farrow, ai tempi musa del regista.

L’esperimento può dirsi comunque compiuto. La struttura propria del documentario è ben ricostruita e c’è un buon equilibrio nell’uso delle gag. Alcune di queste, come quelle su Papa Pio XI o Hitler, sono veramente divertenti. Inoltre, immancabile l’ironia sottile su temi a lui cari, come la psicanalisi e il senso della vita.
Posto ciò, ci troviamo comunque di fronte ad una delle opere minori di Allen. Un film che non può non piacere agli appassionati del genio newyorchese. Senza contare che la struttura del documentario gli dà la possibilità, attraverso la voce narrante, di sfruttare appieno il suo talento comico, frutto di anni di esperienza sul palcoscenico.
Per i marxisti rappresentava una certa cosa. La Chiesa Cattolica non gli perdonò mai l’incidente del Vaticano. Gli americani, in piena depressione, videro in lui una possibilità, un simbolo di perfezionamento, di realizzazione. Naturalmente i freudiani andarono a nozze: lo potevano interpretare come gli pareva e piaceva.